Il progetto di San Giorgio, avviato con il convegno del marzo scorso da Ucpi unitamente al Centro Studi Marongiu e a qualificati esponenti dell’accademia, si pone l’ambizioso obiettivo di rifondare un processo penale accusatorio.

Il percorso, in parallelo con la riforma costituzionale della separazione delle carriere, non sarà certamente semplice. Sono, infatti, di straordinaria attualità le parole pronunciate da Francesco Carrara nella prolusione pisana del 1873: “Gravissimo scoglio incontrerebbero e incontreranno tutti coloro che daranno opera ad una riforma delle nostre procedure penali, in un ostacolo che è potentissimo e soverchiante. E l’ostacolo è questo; che il codice procedurale e l’ordinamento giudiziario del 1865 sono due colonne sulle quali è edificato il trono del più effrenato arbitrio dei pubblici ufficiali.

In un governo veramente libero i pubblici ufficiali dovrebbero essere quelli che meno esercitassero influenza sui provvedimenti legislativi in materia di procedura penale, per la ragione decisiva ( e che basta avere occhi in capo per capirla) che il Codice di procedura penale è destinato a proteggere i galantuomini contro gli abusi e gli arbitrii dei pubblici ufficiali. Ma invece nelle vicende legislative italiane accade il rovescio; e non è così facile che Bertoldo trovi l’albero al quale dovrà farsi appiccare. Hinc illae lachrymae! ”. Il monito di Carrara ha trovato piena conferma nella storia delle riforme repubblicane, in particolare nelle sue tre tappe fondamentali.

La prima, ovviamente, è quella del 1988, alla quale si è giunti partendo proprio dal convegno di San Giorgio del 1961. Pubblicato il progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, la magistratura tentò in tutti i modi di bloccarne l’entrata in vigore con il pretesto, non certo inedito, della scarsità delle risorse. Solo grazie alla ferma determinazione di Ucpi e del suo presidente Gustavo Pansini, il 25 ottobre 1989 vide la luce il codice Vassalli. La seconda tappa è l’inserimento in Costituzione dei principi del giusto processo. Dopo la controriforma del 1992, promossa dalla Corte costituzionale e assecondata dal legislatore nella stagione dell’emergenza mafiosa, i principi del processo accusatorio vennero in parte ripristinati nel 1997, salvo essere subito cancellati dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 361 del 1998.

All’indomani della pubblicazione di quella decisione demolitoria, ispirata sempre al principio di non dispersione delle indagini preliminari, il presidente di Ucpi, Giuseppe Frigo, proclamò l’astensione dalle udienze. In risposta all’iniziativa dei penalisti, il presidente della Repubblica Scalfaro definì eversivo lo “sciopero”, ma la replica di Frigo fu altrettanto netta: “Prendiamo atto con grande tristezza che con questo attacco all’avvocatura penalistica associata il Capo dello Stato non rappresenta più tutti i cittadini”.

In un clima di durissima contrapposizione, Ucpi riuscì a convincere quasi tutti le forze politiche della necessità di una “blindatura” costituzionale delle regole del giusto processo avversate dalla magistratura.

Lo straordinario risultato della riforma dell’articolo 111 della Costituzione venne raggiunto in tempi rapidissimi con l’intervento determinante dell’ex presidente dell’Unione Gaetano Pecorella, nel frattempo divenuto parlamentare. La terza tappa è la separazione delle carriere che completa le due precedenti e che vede nuovamente l’opposizione di Anm, sfociata nella recente istituzione del comitato referendario per il No alla riforma costituzionale.

Si tratta di un fatto del tutto inedito che solleva dubbi sul rispetto di quella regola ordinamentale che, in attuazione dell’articolo 98 comma 3 Cost., vieta ai magistrati l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici: un comitato elettorale non svolge forse funzioni analoghe a quelle di un partito nel corso della campagna referendaria? Al di là della risposta che si vorrà dare, appare evidente il conflitto di interessi in cui versa la magistratura nel contestare una legge di riforma costituzionale riguardante proprio l’ordinamento della magistratura.

Tutte le grandi riforme garantiste repubblicane, il codice accusatorio del 1988, il giusto processo in Costituzione del 1999 e oggi la separazione delle carriere, sono state apertamente appoggiate dagli avvocati penalisti e altrettanto apertamente avversate dalla magistratura, proprio perché rappresentano, come ricordava Carrara, la disciplina dei limiti imposti all’autorità procedente. Su questo incontestabile dato storico bisognerebbe riflettere quando si invocano oscuri presagi illiberali. I penalisti sono sempre stati dalla parte dei diritti, delle garanzie, della democrazia, non altrettanto può dirsi della magistratura che nel 1988 avrebbe voluto conservare il codice Rocco, di matrice fascista e inquisitoria, così come oggi vorrebbe mantenere l’assetto ordinamentale autoritario ideato dal ministro Dino Grandi.

Il progetto di San Giorgio si svilupperà nei prossimi mesi di pari passo con il sostegno alle ragioni del Sì nel referendum confermativo. La pietra angolare su cui edificare il nuovo modello accusatorio non può che essere quella condizione di terzietà ordinamentale del giudice indispensabile per un’effettiva parità fra le parti. Il giusto processo accusatorio non costituisce, tuttavia, solo la condizione ideale per l’esercizio del contraddittorio e del diritto di difesa, ma è anche il presupposto ineludibile per giungere, in caso di condanna, alla giusta pena. La battaglia per la separazione finisce così per intrecciarsi con quella sul carcere.

Ancora prima del raggiungimento dell’obiettivo, nell’immediato e a legislazione invariata, la magistratura potrebbe operare una formidabile supplenza del legislatore, sia nella fase di cognizione, grazie a una più ragionevole dosimetria sanzionatoria che guardi anche alle ricadute nella fase esecutiva, sia nel procedimento di sorveglianza, con un approccio diverso alle misure alternative alla detenzione che tenga conto del surplus di afflittività rappresentato dall’endemico sovraffollamento carcerario. Anm ha firmato con Ucpi l’appello sul carcere: per una volta stia dalla parte delle garanzie e agisca di conseguenza, perché, al di là delle inerzie del Parlamento, le chiavi del carcere sono pur sempre in mano ai magistrati.