Ogni rinuncia alla vita da parte di chi ne può disporre interpella un numero crescente di coscienze, da quelle degli appartenenti al nucleo familiare ad altre che abitano il contesto lavorativo, fino ad estendersi a quelle riguardanti l'intero tessuto sociale di riferimento della persona. Ma tale rinuncia, quando avviene in una condizione di privazione della libertà, impone una considerazione supplementare e ben più drammatica. E ciò perché è intuitivo ed immediato il collegamento che si è soliti instaurare tra il tragico evento e la condizione privativa della libertà. E' evidente, infatti, che quest'ultima rimodelli gli aspetti fisici e psicologici della persona costretta, ristretta, internata, trattenuta, la cui intera vita soffre della limitazione.

A questa limitazione corrisponde gradualmente ma inesorabilmente una perdita della percezione di sé come soggetto pienamente titolare di diritti e meritevole del riconoscimento di dignità e rispetto. Sopravviene un inevitabile sentimento di assuefazione non solo alla situazione privativa ma anche alle concrete, sovente terribili, condizioni in cui essa viene attuata. Si finisce con l'abituarsi alle negative percezioni sensoriali (caldo o freddo eccessivi, odori sgradevoli, mancanza d'igiene), ma anche a quelle forme più sottili ed insidiose di riconformazione della personalità, quali il diniego di affettività, la mancanza di attività ricreative o occupazionali, la carenza di cure sanitarie, l'insufficiente assistenza psicologica.

L'aggregazione in una sola persona di disagi materiali e stati d'animo ben più afflittivi di quanto la semplice espiazione del venir meno dello “status libertatis” determina, come precipitato prevedibile, la perdita della speranza, sotto vari profili: la speranza del miglioramento delle condizioni, la speranza di ricevere attenzione e rispetto, la speranza dell'avvio di itinerari di formazione lavorativa, la speranza della mitigazione dell'entità e della durata della pena correlata a comportamenti ineccepibili, la speranza della eliminazione dei fattori ostativi alle espressioni affettive più intime, la speranza di spazi detentivi più ampi, la speranza di un incremento del personale penitenziario, la speranza preminente della realizzazione delle finalità rieducative della pena. La delusione di queste speranze non può non agire come propellente per il deterioramento di situazioni di debolezza psicologica o addirittura trasformarsi in causa scatenante il sorgere di nuovi disturbi.

L'incapacità di dominio, del tutto spiegabile con la mancanza protratta di libertà, dell'uno o delle altre, l'assenza di percezione istituzionale di questi stati d'animo, la maturata certezza della loro immutabilità, il sentimento d'abbandono del mondo esterno, e di quello istituzionale in particolare, isolatamente o in concorso tra loro ben possono convertirsi in circostanze induttive della rinuncia ad una vita che appare irreparabilmente indegna di essere vissuta.

Il sovraffollamento è certamente uno, giammai l'unico, dei momenti che possono influire sullo scoramento e la rassegnazione fatali. I rimodernamenti strutturali e le espansioni edilizie di lungo periodo, e, pertanto, incompatibili con l'urgenza del momento, vengono generalmente considerati dall'attuale popolazione carceraria come interventi chimerici che accrescono frustrazione, delusione, rabbia. Sugli altri elementi prima enunciati (civilizzazione delle condizioni detentive, adeguata assistenza sanitaria e psicologica, previsioni legislative attenuative della durata della pena, prospettive di provvedimenti clemenza, ridisegno degli organici della polizia penitenziaria ormai costretta a ritmi di impegno insostenibili) è indilazionabile una riflessione pubblica, politica ed istituzionale, che abbatta barriere e spenga l'intransigenza e la contrapposizione tra posizioni diverse e, soprattutto, senza indugio individui misure immediatamente adottabili, come da anni ed instancabilmente il Garante nazionale delle persone private della libertà auspica.

Ogni ulteriore vita perduta a cagione di ritardi, incertezze, divisioni, petizioni di principio peserà sulle coscienze degli inerti, dei recalcitranti, degli insensibili. Ma è impensabile che nel nostro Stato democratico l'ideale della speranza più volte evocato dal Presidente della Repubblica non venga effettivamente coltivato. E' il caso di dire speranzoasamente e senza retorica circa i suicidi nei luoghi di privazione della libertà: non uno di più.