Il tappo è saltato, sì, e forse non tornerà più al suo posto. Il diaframma che separava la ragione dal delirio e dalla tentazione del linciaggio, il buon senso dalla barbarie è stato sfondato con fragore. In un autogrill a due passi da Milano, mica a Teheran, un padre e un figlio — ebrei, francesi, additati e riconosciuti perché indossavano una kippah — sono stati accerchiati e insultati. Accusati di genocidio. Perché ebrei, e basta.

Il gesto, miserabile, è la radiografia esatta di ciò che sapevamo e temevamo: la metamorfosi dell’antisionismo in antisemitismo, della rabbia in furore etnico, del dissenso in persecuzione. Non serve più neanche l’alibi di Gaza o di Netanyahu: basta il sangue ebraico, che da millenni funge da parafulmine per ogni colpa del mondo.

Naturalmente, non mancherà chi ci spiegherà che “è inevitabile”, che “la tensione è alta” e che, in fondo in fondo, “qualche reazione è comprensibile”. Gli stessi sussurri infami che seguirono al pogrom del 7 ottobre, come se l’equivalenza tra ebrei e Israele fosse una licenza morale per l’odio.

E invece no. Condannare senza sconti Netanyahu, e i suoi crimini infami, si può. Si deve. Ma non al prezzo di una sinistra caccia all’ebreo. Non al prezzo di equiparare l’identità religiosa a una colpa geopolitica.

Chi non capisce questa distinzione elementare ha già perso. Ha già firmato la resa della civiltà. Hamas e Netanyahu, in questo, sono complici: vivono del medesimo corto circuito, simmetrici e opposti, pronti a banchettare sul cadavere della nostra civiltà perduta. Perché il massacro di Gaza e la barbarie dell’Autogrill di Milano non si escludono, semmai si sommano...