L’idea di uno Stato indipendente, casa di tutti palestinesi, non nasce in un momento specifico, ma si forma e consolida nel tempo come conseguenza degli eventi storici che hanno stravolto la geopolitica del Medio Oriente.

Nel periodo ottomano la Palestina è una regione amministrativa popolata da una maggioranza araba e da minoranze ebraiche e cristiane che convivono pacificamente. Non esisteva un’identità nazionale palestinese distinta, ma un’appartenenza araba condivisa con altre regioni del Levante. Con la fine della Prima guerra mondiale l’impero ottomano va in pezzi e l’istituzione del Mandato britannico nel 1920 rende la Palestina un laboratorio coloniale in cui si intrecciavano due promesse contraddittorie: l’istituzione di un “focolare nazionale ebraico” (secondo la Dichiarazione Balfour del 1917) e la garanzia di autodeterminazione per le popolazioni arabe locali.

Da qui nasce un conflitto radicale: il movimento sionista, forte di una crescente immigrazione ebraica e del sostegno di Londra, si organizza come un proto-Stato già negli anni '30, mentre la popolazione araba palestinese, carente di rappresentanza politica e di una strategia unitaria, si trova costretta in una posizione difensiva. Le rivolte arabe del 1936-39 contro il Mandato e l’immigrazione ebraica sono la prima forma embrionale di rivendicazione di autonomia, ma ancora nessuno ha in mente la Palestina come nazione sovrana.

La risoluzione 181 delle Nazioni Unite (29 novembre 1947) stabilisce finalmente la spartizione della regione in uno Stato ebraico e uno arabo con la città di Gerusalemme posta sotto il controllo internazionale. Pochi mesi dopo nel maggio 1948 il presidente Ben Gurion proclama la nascita di Israele, ma i Paesi arabi non ci stanno: Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq e dichiarano immediatamente guerra al neonato Stato ebraico, più per logica di potenza che per reali progetti di autodeterminazione palestinese. Il conflitto dura alcuni mesi e vede la vittoria totale di Israele che estende i propri confini al 78% della Palestina mandataria rispetto all’iniziale 56% previsto dall’Onu. I territori che dovevano essere destinati ai palestinesi sono assorbiti da Egitto (Gaza) e Giordania (Cisgiordania): oltre 750mila persone abbandonano le proprie case (nakba).

Stessa sceneggiatura nel 1967 con la guerra dei sei giorni in cui l’esecito di Tel Aviv sbaraglia le forze egiziane, giordane e siriane, conquistando la Striscia di Gaza e il Sinai dall’Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Giordania, e le alture del Golan dalla Siria estendendo il suo territorio da 8.000 a oltre 34.000 miglia quadrate.

È in questo contesto che nasce l’OLP, fondata nel 1964 e guidata da Yasser Arafat a partire dal 1969. La sua missione iniziale era la liberazione della Palestina tramite la lotta armata, ma col tempo si è evoluta verso una strategia diplomatica e istituzionale. La dichiarazione simbolica dello Stato di Palestina ad Algeri nel 1988, con il riconoscimento implicito di Israele, ha segnato un momento cruciale: per la prima volta, l’OLP abbandona l’idea di una Palestina indivisa e accetta il compromesso dei confini del 1967. Questa svolta è stata accolta con favore da gran parte della comunità internazionale.

Il processo di Oslo, avviato nel 1993, sembrava poter concretizzare e l’idea dello Stato di Palestina in realtà; Venne creata l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) come struttura di autogoverno, con l’obiettivo di costruire le basi per una nuova nazione entro cinque anni. Ma la realtà sul terreno — espansione aggressiva degli insediamenti israeliani, frammentazione territoriale, crescita dei fondamentalisti di Hamas — ha impedito qualsiasi reale sovranità. Dopo il fallimento del vertice di Camp David nel 2000 e la seconda Intifada, il processo di pace è imploso, lasciando lo Stato di Palestina in uno stato di sospensione cronica.

Nel frattempo, i paesi confinanti hanno continuato a usare la causa palestinese come strumento di legittimazione interna e come simbolo unitario nei vertici della Lega Araba, ma senza coerenza. L’Arabia Saudita ha promosso l’iniziativa di pace del 2002, che prevedeva il riconoscimento di Israele in cambio del ritiro ai confini del 1967, ma ha poi sostenuto la normalizzazione in sede bilaterale, soprattutto dopo gli Accordi di Abramo. L’Egitto e la Giordania, pur avendo firmato accordi di pace con Israele, non hanno mai offerto una vera integrazione ai palestinesi sotto la loro influenza. Il Qatar finanzia Hamas a Gaza, mentre al tempo stesso si propone come interlocutore con gli Stati Uniti. La Palestina resta per molti regimi arabi una causa utile, ma non prioritaria.

Oggi è riconosciuta come Stato osservatore dalle Nazioni Unite e dai parlamenti di oltre 130 Paesi, ma si tratta di qualcosa di puramente simbolico. La Cisgiordania rimane divisa in aree sotto controllo israeliano in intesa con un’Autorità Nazionale del tutto delegittimata mentre il movimento dei coloni ogni giorno si mangia impunemente le terre dei residenti arabi. La drammatica situazione della Striscia di Gaza dopo quasi due anni di bombardamenti israeliani (60mila morti e una terribile carestia) è invece sotto gli occhi di tutti come lo sono gli osceni progetti di Donald Trump e del governo Netanyahu di trasformare l’enclave in una riviera di lusso (magari con l’apporto dei petrodollari sauditi), cacciando definitivamente i suoi abitanti.

Il sogno dei “due popoli due Stati” appare oggi come una prospettiva declinante, un’evocazione da idealisti, pur essendo l’unica che può garantire una pace duratura tra ebrei e arabi. La storica reticenza dei paesi arabi, le esitazioni internazionali, il ritardo con cui il movimento palestinese ha abbracciato la diplomazia e, naturalmente, la progressiva deriva identitaria e nazionalista delle forze politiche israeliane hanno ucciso quel sogno. L’idea dello Stato di Palestina resta formalmente viva, ma ha la consistenza di una chimera.