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RACCOLTA FIRME PER IL FINE VITA ORGANIZZATO DALL' ASSOCIAZIONE LUCA COSCIONI EUTANASIA
Come è stato anticipato dal Dubbio, sembra esserci ancora del tempo per ottenere dal Parlamento un testo sull’aiuto al suicidio medicalizzato, che possa, come richiesto dalla Corte costituzionale, riempire alcuni vuoti inevitabili della sentenza n. 242/2019.
Il ddl più recente, presentato al Senato dai relatori Pierantonio Zanettin e Ignazio Zullo, si allontana dal disposto della Corte costituzionale, prevedendo nuove regole fondamentali: un comitato nazionale di valutazione, così da accantonare i diversi comitati etici regionali; la “privatizzazione” dell’aiuto al suicidio medicalizzato, così che il personale, strumenti e farmaci del servizio sanitario nazionale non saranno utilizzati per pratiche di aiuto al suicidio medicalizzato.
Non occorre un’analisi approfondita per rendersi conto che rispetto ai parametri della sentenza della Corte costituzionale il testo adottato dalle Commissioni presenta su questi punti una modifica fortemente limitativa della possibilità per il paziente di accedere all’aiuto al suicidio medicalizzato. D’altronde, l’insegnamento della Corte costituzionale ha subito una lunga stasi di circa sei anni prima che venisse presentato questo testo e ciò nel timore da parte del governo che l’aiuto al suicidio potesse aprire la via alla “deriva suicidaria e omicidaria”.
Nell’arco che questo tempo si è dato il Parlamento sono state previste delle audizioni in sede consultiva: due a favore e due contro il testo, ritenute necessarie anche per valutare possibili mediazioni. Senza entrare in una analisi critica di queste nuove regole di cui si è già molto scritto, la vicenda che il nostro Paese si trova a vivere evidenzia, ancora una volta, il contrasto fra due dottrine etiche che conducono a due diverse soluzioni giuridiche del fine vita.
Da un lato, abbiamo quelle dottrine che condannano soluzioni definite di “mascherata eutanasia”, richiamando con vigore i principi etici e giuridici dell’inviolabilità e indisponibilità di ogni vita umana. La ragione nel nuovo progetto di legge, della “privatizzazione” dell’aiuto al suicidio con la esclusione del ricorso al Servizio Sanitario Nazionale, è quella che la Corte costituzionale si sia limitata a stabilire il “diritto a non essere punito” per colui che aiuta e che assiste il suicidio (art. 580 c. p.), ma non di riconoscere un “diritto a morire”.
D’altronde, per questa dottrina la vita umana non può mai essere considerata come un bene negoziabile: non si può disporne per ottenere, in cambio, una serie di vantaggi anche considerevoli. Inoltre, il suo valore non è mai determinato in funzione di criteri come lo “stato di salute” del suo titolare, misurato anche in termini di utilità sociale.
Ogni uomo rappresenta un progetto biologico-naturale o politico-sociale indispensabile per l’esistenza e lo sviluppo della stessa società civile, di modo che la vita umana è indisponibile in ogni sua età di sviluppo a prescindere da qualsiasi condizione di grave disabilità o compromissione della salute. In questa prospettiva antropologica e morale la vita umana contiene in sé, in ogni circostanza, la propria dignità. Ne consegue che non sussiste un diritto a essere uccisi e neppure un diritto a essere aiutati a uccidersi ed è evidente che la legge dello Stato ha il dovere di tutelare la vita in modo effettivo, impedendo che la richiesta di essere aiutati a morire si trasformi in un “diritto”.
Su tali basi si ritiene che un eventuale legittimazione del suicidio medicalmente assistito attivi un vulnus irrimediabile al principio secondo il quale compito primario inderogabile del medico (e più in generale di ogni operatore e di ogni sistema sanitario) sia l’assoluto rispetto della vita dei pazienti, anche nei casi in cui essi stessi formulino esplicite richieste di aiuto al suicidio. Oltre al fatto che una volta indebolito il principio del più rigido rispetto nei confronti della vita si sostiene che questa possibilità provochi comunque un progressivo superamento dei limiti che si vogliono porre, come avvenuto in diverse legislazioni che hanno esteso la procedura a minori, a soggetti psicologicamente/ o psichiatricamente fragili, agli anziani non autosufficienti, fornendo prove evidenti della difficoltà di porre un freno.
A questa dottrina, brevemente riassunta, si contrappongono altre ragioni sia etiche che giuridiche a favore di pratiche che conducono verso l’eutanasia o il suicidio assistito. In genere, si muove da alcuni requisiti ritenuti fondamentali per ritenere legittima la pratica: oltre al consenso informato, espresso, contestuale del paziente o anticipato attraverso le DAT, la presenza di una condizione di malattia irreversibile, dolorosa, anche sotto il profilo psicologico, e, a seguito di ciò, di una vita ritenuta non dignitosa da chi la vive e dalla disponibilità del terzo, attraverso la sua azione e/ o omissione nel cagionare la morte, di operare nel rispetto della volontà di chi richiede la pozione fatale.
Le normative a favore dell’eutanasia o dell’aiuto al suicidio (Svizzera, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania, ecc.) si avvalgono di criteri di accuratezza e questi percorsi trovano il loro sostegno in teorie filosofiche che, pur riconoscendo in generale la vita come valore, ritengono che sia la persona che conferisce senso alla propria vita vissuta e da vivere.
La vita non è semplice animazione della materia, ma si identifica con il rispetto dell’individuo, della ragione, della dignità e libertà. Pertanto, il problema dell’aiuto al suicidio non mette in gioco il valore della vita, ma il valore dell’uomo che in certe condizioni può sentirsi in diritto di decidere di porre fine ad un’esistenza in cui non si riconosce più e che vede tradursi in un processo biologico che, mediante l’assistenza tecnica, procede come mero prolungamento artificiale nella sua anonima irreversibilità.
Scuole di pensiero spingono, dunque, affinché lo Stato non obblighi i suoi cittadini alla mistica della sofferenza e del sacrificio. Filosofi quali Peter Singer, Helga Kuse e James Rachels ritengono che sia l’individuo che prende in mano la propria vita. Da un punto di vista culturale generale, questa concezione può essere considerata come una indiretta conseguenza della progressiva “secolarizzazione” delle società occidentali, le quali si stanno allontanando da un modello di pensiero integralista e religioso della vita.
Si pensa che lo Stato debba ritirarsi dal suo antico, tradizionale ruolo di difensore di valori morali, che debba perdere in certo senso il carattere di “Stato etico”, facendo proprie posizioni di “laica neutralità”. Non si dimentichi poi che nel nostro Paese, se in forza della legge 219/ 2017 è possibile accettare la volontà dell’interessato che chiede la sospensione delle terapie salvavita che lo porterà a morte, non si vede come mai non sia possibile fare lo stesso per la richiesta della persona che chiede di essere aiutata in altro modo a giungere allo stesso risultato.
Sapere di avere la possibilità di mantenere la propria dignità fino alla fine della propria vita è un aspetto centrale del proprio benessere complessivo e fornisce quel senso di sicurezza che può rasserenare l’esistenza, anche qualora non si richieda concretamente alcuna assistenza a morire. L’attuale discussione sul testo legislativo concernente l’aiuto al suicidio medicalizzato, al di là degli interventi giudicati positivi o negativi sui singoli aspetti, muove da queste due diverse visioni etiche. Tradurle in rigide regole giuridiche pare a chi scrive un errore, perché va considerata soprattutto l’attuale “cultura della morte”: il modo cioè con cui una società tratta i morenti.
Nella trasformazione sociale della grande famiglia patriarcale in quella mono parentale, anche il trattamento del morente si è profondamente modificato: da una vicenda intima, caratterizzata da affetto e umanità ad una vicenda anonima, spesso rifiutata per plurime ragioni: psicologiche, economiche, pratiche e logistiche-organizzative. Tutto ciò può anche spingere verso la tragica decisione del paziente a porre fine alla propria esistenza e sull’obbligo di chi si oppone all’aiuto al suicidio di riflettere sull’elaborazione mentale della sofferenza, dell’emarginazione, della infelicità che genera la malattia.
Non stupisce, allora, la difficoltà di ricavare dal nostro ordinamento giuridico certezza sui possibili significati del diritto di lasciarsi morire, quando vi sia un processo causale che naturalmente conduce alla morte, quando gli strumenti ancora in grado di opporsi a tale evento siano onerosi per il paziente e per la sua dignità. Difficile allora rispondere al quesito quando il bene vita, come valore in sé, debba cedere il passo alla tragica volontà del malato.