Dalla sentenza 242 della Corte costituzione sul suicidio assistito scaturisce un diritto a morire? Oppure si tratta soltanto di una scelta possibile, realizzabile e depenalizzata ad alcune condizioni? Il cuore del dibattito sul fine vita sta tutto qui, e su questo la maggioranza non dubita: un diritto al suicidio un c’è. Ma c’è la necessità di legiferare, restando nel perimetro segnato dalla Consulta.

Dunque, ora il più è capire se il testo presentato dalla maggioranza rientri in quel campo tracciato dai giudici, e fino a che punto sia possibile forzarlo. Per chiarirlo i senatori hanno deciso di ascoltare il parere di quattro giuristi, auditi martedì in Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama: Mario Esposito, Lorenza Violini, Giuliano Amato e Vladimiro Zagrebelsky. Le posizioni emerse sono diverse e articolate. Ma i quattro giuristi concordano almeno su un punto: il legislatore non ha e non può avere un mero ruolo di “esecutore” delle sentenze della Consulta, né c’è alcun obbligo di “fotocopiare” la storica decisione sul caso Cappato/ Dj Fabo del 2019.

Ma è ragionevole che il Parlamento sia prudente, se non vuole dare vita a un testo che abbia già un posto prenotato davanti alla Corte. Questo rischio, tutto sommato, sembra sventato. Almeno secondo il relatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che ha lavorato al testo base adottato dalle Commissioni Giustizia e Affari sociali del Senato insieme a Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. «Ognuno ha dato suggerimenti di miglioramento, però l’impianto ha retto. E di questo non posso che compiacermi», ha spiegato il senatore azzurro. Che non chiude a nessuna ipotesi di modifica o mediazione, prima di avere sottomano gli emendamenti che presenteranno i partiti. Il termine scadeva questa mattina, e ne sono arrivati una cinquantina soltanto dal Pd. Il cui capogruppo in Commissione Giustizia al Senato, Alfredo Bazoli, parla invece di un «incompleto», con parecchi nodi da sciogliere. Che sono gli stessi emersi nel corso delle audizioni.

Si è partiti dalle riflessioni di Esposito, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università del Salento, che per la verità non vede la necessità di fare una legge: una norma segnerebbe inevitabilmente «un arretramento della tutela della vita e della sua indisponibilità». Di parere opposto è Violini, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Milano, per la quale una legge nazionale è invece necessaria: il Parlamento ha il compito di stabilire un punto di equilibro tra la tutela della vita e la libera autodeterminazione dell’individuo. Niente di più complicato, per la politica che mira all’intesa partendo da un’enorme distanza. Soprattutto su un punto: l’esclusione del Servizio sanitario nazionale dai percorsi di fine vita. Zagrebelsky, già giudice della Cedu, la mette così: escludere il Ssn significa escludere la natura medica del suicidio assistito. E infatti di medico, dice, «non c’è più nulla».

Anche se il Ssn non è tenuto a garantire la prestazione gratuitamente, il rischio è che l’aiuto alla morte volontaria diventi qualcosa d’altro, perdendo di vista un principio fondamentale: il criterio dell’autodeterminazione come scriminante. D’altronde il testo si muove in questa direzione: escludendo la punibilità a determinate condizioni, senza affermare un diritto, sottolinea Zanettin. Il quale chiarisce che il pubblico è escluso in termini di personale, prestazioni e strumentazioni, ma non di accertamento. Questioni “pratiche”, che però hanno un grande risvolto etico. Su cui è difficile trovare la quadra, se non - forse - presentando l’orecchio alle osservazioni di Giuliano Amato.

Quando il presidente emerito della Consulta si è seduto in commissione è stato un po’ come dialogare direttamente con la sentenza 242, a cui ha contribuito durante il suo mandato da giudice costituzionale. «Ci sono dei casi in cui la pietas diventa la ragione di fondo della decisione che si adotta, e su questo terreno era ed è fondamentale che credenti e non credenti trovino un punto di incontro: accettando le ragioni della pietas gli uni, non pretendendo la disciplina di un diritto gli altri», spiega Amato. La stessa chiave è stata adottata nel 2019 dalla Corte, che presto si pronuncerà anche sull’eutanasia.

Un dettaglio che di certo non sfugge al Parlamento, né ad Amato, il quale solleva un punto fondamentale: presto le innovazioni tecnologiche permetteranno di affidare l’atto finale a una macchina, azionabile anche con la parola. Con il risultato di equiparare il suicidio assistito all’eutanasia. E queste macchine, è l’altolà di Amato, non potranno essere a disposizione delle cliniche private. Per questo, ragiona il presidente emerito, è difficile escludere il ruolo della sanità pubblica. Che potrà essere rivisto almeno per ciò che riguarda la strumentazione.

Un’altra ipotesi, appena sussurrata, mirerebbe a individuare un capitolo di bilancio a parte, in modo che le spese relative al suicidio assistito non incidano sul fondo dedicato alla sanità. Ma c’è sempre da discutere sul ruolo del medico, per il quale il Pd chiederà di prevedere l’obiezione di coscienza. Oggi si comincerà a discuterne, per approdare in Aula, molto probabilmente, a settembre. Dal momento che l’ipotesi 23 luglio sembra sfumare. Intanto i Pro vita si danno da fare, occupando gli scranni del Parlamento con decine di figure nere incappucciate con una falce in mano: «Siete stati eletti per aiutarci a vivere recita lo slogan sui cartelli - non per farci morire».