Pubblichiamo l’intervento dell’avvocato Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, al convegno “Per un Gesto di Clemenza nelle Carceri”, che si è svolto ieri in Senato
 

La concessione della clemenza è un tema di estrema complessità. È dunque importante evitare ogni forma di banalizzazione. Si può cercare, in poche battute, di semplificare o mettere a fuoco alcuni nodi centrali, ma senza mai omettere la profondità del problema.

Nell’affrontare la questione del sovraffollamento carcerario – oggi parliamo di circa 11.000 detenuti oltre la capienza regolamentare – è fondamentale affiancare al dato quantitativo anche una riflessione culturale e giuridica.
Esistono, infatti, delle resistenze culturali profonde rispetto ai provvedimenti di clemenza, quali le amnistie e gli indulti. Queste resistenze non sono prive di fondamento: si pensi, ad esempio, alla dogmatica tedesca. Feuerbach, teorico della funzione general-preventiva della pena, diceva che la minaccia legale della sanzione, per essere effettivamente preventiva, dev’essere assistita dalla certezza della sua esecuzione. In altre parole, se lo Stato investe risorse per accertare una responsabilità e poi non dà seguito all’esecuzione della pena, viene meno la ragione stessa per la quale è stata prevista la sanzione penale come risposta punitiva da parte dello Stato.

Inoltre, i provvedimenti di clemenza presentano anche una loro intrinseca iniquità: si basano su criteri temporali che generano disuguaglianze. Due persone colpevoli dello stesso reato, commessi in momenti diversi – anche solo a pochi giorni di distanza – si trovano trattate in modo totalmente differente. Questo crea, di fatto, una disparità di trattamento a parità di condotta.

Alle considerazioni di carattere culturale e giuridico è necessario affiancare però un elemento essenziale: la dignità della persona. Il Presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri ha ricordato che la dignità non si acquisisce per merito e non si perde per demerito: è un prerequisito che appartiene all’uomo, non è una concessione dello Stato. Quando le condizioni carcerarie ledono in modo grave e sistematico la dignità della persona, lo Stato che ha privato della libertà l’individuo viene meno ai suoi obblighi fondamentali: il trattamento della persona in condizioni di dignità, appunto.

Quindi, quali soluzioni possiamo trovare? A mio avviso, possiamo e dobbiamo cercare una sintesi tra le esigenze che ho sinteticamente descritto, apparentemente opposte, partendo dal presupposto che si tratta nel breve periodo di affrontare un’emergenza. Da un lato, il rispetto della certezza del diritto, dall’altro, il rispetto della dignità umana. Pur essendo un tema di politica giudiziaria che appartiene all’autorità politica, mi permetto di dire che probabilmente la sintesi può e deve essere trovata utilizzando strumenti già previsti dall’ordinamento penitenziario, migliorandoli e potenziandoli.

Un esempio, ma non è il solo, potrebbe essere la liberazione anticipata, che oggi prevede una riduzione della pena di 45 giorni ogni semestre per buona condotta. Si potrebbe, in una fase emergenziale, estendere questo beneficio a 60 o 90 giorni, soprattutto per detenuti con pene brevi e che non si sono macchiati di reati particolarmente gravi. Sarebbe una misura concreta, equilibrata, che non nega la funzione della pena e allo stesso tempo aiuta a gestire una situazione drammatica, nel rispetto dei principi fondamentali.

Permetterebbe, per un verso, di evitare che lo Stato lanci un messaggio contraddittorio: minacciare la pena e poi non eseguirla, per altro verso, eviterebbe di ignorare le condizioni delle carceri e il valore della dignità umana.

Aggiungo due ultime considerazioni.

La prima: il ruolo del magistrato di sorveglianza. Il sovraffollamento e la carenza di personale compromettono gravemente la possibilità di un rapporto diretto e continuo tra magistrato e detenuto. Questo rapporto è essenziale per valutare il percorso rieducativo e decidere, con cognizione di causa, l’accesso a benefici o misure alternative. Se viene meno, il rischio è duplice: il magistrato di sorveglianza può concedere benefici a chi non ha compiuto il necessario percorso di rivisitazione critica delle proprie condotte o – all’opposto – il magistrato potrebbe rifugiarsi in un atteggiamento difensivo, non favorendo percorsi di reinserimento.
La seconda considerazione: una visione moderna della pena. Dobbiamo evitare che al provvedimento che voglia superare il dramma del sovraffollamento carcerario non si accompagni un piano strategico carceri/detenzione di medio-lungo termine e ad una più ampia riflessione su cosa debba essere la pena in una democrazia avanzata del XXI secolo. La nostra idea di pena è ancora fortemente legata alla retribuzione; la pena però non è vendetta, è rieducazione. L’uso esclusivo della sanzione penale, con una pena scontata in condizioni strutturali carcerarie spesso indegne, non fa che alimentare la recidiva. In un sistema moderno, invece, dobbiamo interrogarci su quali conflitti debbano essere affidati alla giurisdizione penale e su quali possano essere affrontati con altri strumenti.

In sintesi, ritengo che la direzione più sostenibile e realistica sia quella di intervenire sugli istituti già previsti dall’ordinamento penitenziario, migliorandoli e rendendoli strumenti efficaci di equilibrio tra il principio di legalità e il rispetto della dignità umana. Questo intervento tecnico deve però essere accompagnato da un progetto culturale e politico più ampio: una riflessione profonda sul ruolo del diritto penale e sul “senso della pena” nella contemporaneità, alla luce dei mutamenti epocali che caratterizzano il nostro tempo.