Un detenuto settantenne della casa circondariale Pagliarelli di Palermo ha perso la vista a un occhio mentre attendeva un intervento di cataratta. A sollevare il caso è Pino Apprendi, garante dei detenuti del capoluogo siciliano, che definisce la situazione “intollerabile” e denuncia come “ogni patologia, qui, rischia di diventare irreversibile”.

All’inizio del 2024, il settantenne detenuto di Pagliarelli viene visitato per la prima volta: un’oculista rivela una cataratta degenerata da tempo, che richiede un intervento tempestivo. Passano poi tre mesi: a metà maggio, il medico del carcere conferma la gravità della situazione e ribadisce l’urgenza dell’operazione. Due mesi più tardi, a luglio, arriva un nuovo riscontro interno che non lascia dubbi: occorre intervenire senza indugi. Eppure, nonostante le diagnosi ripetute, la pratica resta ferma. Ad agosto l’uomo viene inviato a un controllo all’ex Imi di Palermo, ma da quel momento si apre un buco nero che durerà nove mesi. Solo il 17 maggio 2025, dunque a quasi un anno dall’ultimo accertamento esterno, il detenuto torna a essere visitato all’interno della casa circondariale: nel frattempo ha già perso la vista di un occhio e comincia a vedere sfuocato anche nell’altro. Soltanto a valle delle sollecitazioni del garante Pino Apprendi si sbloccano le procedure, ma l’intervento – programmato solo dopo ulteriori disguidi – è stato fissato con un’ulteriore attesa di diciotto mesi a partire da febbraio scorso. «Il paradosso è che un cittadino libero, con lo stesso problema, otterrebbe in poche settimane una visita e l’operazione», osserva Apprendi. «In carcere non hai via d’uscita: non puoi rivolgerti a strutture convenzionate per tua scelta. Sei legato

alle inefficienze del sistema interno». La carenza di personale, l’accumulo di pratiche, i tempi biblici delle autorizzazioni: dietro ogni sbarra, sottolinea il garante, si annida il rischio che un semplice intervento diventi cronico e, in casi estremi, letale. Al Pagliarelli sono oggi circa 1.400 i detenuti- pazienti affidati a un’area sanitaria interna che opera senza strumenti e con risorse insufficienti.

Non è un episodio isolato. In tutta Italia, le visite specialistiche e gli interventi chirurgici in carcere procedono a rilento: liste d’attesa lunghissime, trasferimenti disorganizzati e lentezze burocratiche che mettono a repentaglio la salute dei reclusi. E quando un trattamento viene programmato, spesso arriva troppo tardi. Servono più risorse, personale dedicato, protocolli snelli e una maggiore apertura verso strutture esterne. Salvare la vista – o la vita – di un 70enne non dovrebbe essere un’eccezione, ma la regola.

Il caso di C. L. non è soltanto la storia di un uomo che non vede più da un occhio, ma il simbolo di un sistema sanitario carcerario paralizzato. Fino a quando le garanzie costituzionali varieranno in base al luogo di cura, dietro le sbarre resteranno pazienti di serie B, condannati non solo per i reati commessi, ma anche dalle lentezze di una burocrazia che non cura adeguatamente i reclusi.