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MATTEO SALVINI MINISTRO INFRASTRUTTURE, LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI
Dal Bahrein, la premier Giorgia Meloni ha sentito il bisogno di ribadire che il decreto sulla proroga degli aiuti militari all’Ucraina «ci sarà», e che il governo lo approverà «entro la fine dell’anno». Una puntualizzazione che, più che ai cronisti in trasferta, sembra indirizzata al vicepremier Matteo Salvini, reduce da una serie di prese di posizione che lasciano chiaramente presagire problemi in consiglio dei ministri e in Parlamento contro il rinnovo dell’autorizzazione a fornire armi a Kiev. Meloni parla di logistica, di provvedimenti da «spalmare» nei vari Cdm. Ma il rinvio del decreto, sfilato all’ultimo minuto dall’ordine del giorno, ha ben poco di tecnico: è politico, e per di più prevedibile.
La premier prova a minimizzare, spiegando che il via libera non è questione di giorni contati e che a dicembre si terranno altre riunioni del governo. Ma il messaggio, neanche troppo criptico, è rivolto al suo alleato del Carroccio: l’Italia non cambia rotta sul sostegno all’Ucraina, qualunque sia l’umore del leader leghista. Meloni insiste sul fatto che prorogare la possibilità di inviare armi non significa «lavorare contro la pace», ma garantire che Kiev possa difendersi «finché c’è una guerra». Una frase che suona come la risposta indiretta a Salvini, impegnato a intestarsi il ruolo di guardiano del fronte pacifista e a marcare le distanze da quella linea euroatlantica che da mesi fatica a digerire.
La premier si muove dunque su un crinale sottile: rassicurare gli alleati internazionali, evitando al tempo stesso di incendiare la già complicata convivenza nel centrodestra col ministro dei Trasporti. Ed è in questa cornice che va letta anche la scelta di intervenire sulle parole dell’ammiraglio Cavo Dragone, il capo militare coinvolto nella polemica sollevata proprio da Salvini. Meloni invita a «misurare molto bene le parole», chiarisce che il riferimento dell’ammiraglio riguardava soltanto la cybersicurezza e circoscrive quelle frasi a un terreno tecnico, quasi neutro. Un modo elegante, ma trasparente, per offrire un appiglio al leader della Lega, consentendogli una via di uscita senza irrigidire ulteriormente i rapporti interni.
Perché il punto vero è proprio questo: con l’approvazione del decreto rinviata, Meloni sa di avere davanti giorni complessi. Salvini vede nell’Ucraina un terreno ideale per distinguersi, recuperare centralità e parlare al suo elettorato più scettico verso la Nato e più incline alla retorica del dialogo con Mosca. La premier, al contrario, non può permettersi oscillazioni: il sostegno a Kiev è diventato un pilastro della credibilità internazionale dell’Italia, un impegno che Palazzo Chigi non intende rimettere in discussione.
E così Meloni rilancia sui fatti. Ricorda l’invio di generatori elettrici chiesti da Zelensky, sottolinea che l’Italia continua ad aiutare la popolazione civile, ribadisce che lavorare per la pace significa insistere su una «pace giusta e sostenibile». È una narrazione calibrata, pensata per disinnescare la trappola comunicativa di Salvini: spostare il dibattito dalla politica ai dettagli operativi, diluire lo scontro nella gestione ordinaria dei dossier, negare che il rinvio del decreto sia frutto delle tensioni interne.
Intanto il Pd affonda il colpo parlando di «maggioranza commissariata» dal leader leghista. E la dinamica, a ben vedere e al netto delle divisioni che attanagliano anche il campo largo, non è così lontana dalla realtà: Salvini continua a intervenire su dossier strategici e a tentare di condizionare l’agenda del governo, proprio mentre sulla politica estera il centrodestra si mostra ancora una volta diviso. Meloni lo sa, e sa anche che una frattura visibile sul sostegno all’Ucraina sarebbe un segnale negativo per Bruxelles, Washington e Kiev.
Per questo la premier insiste sulle sue parole, le pesa, le ripete. Il decreto «si farà», ripete dal Bahrein. Il governo mantiene la rotta. Il messaggio è chiaro: niente battaglie identitarie potranno condizionare la politica estera italiana. Ma resta da capire se basterà per evitare che Salvini trasformi il prossimo Cdm in un nuovo terreno di scontro. Meloni ha scelto la linea della prudenza. Ora tocca alla Lega decidere se accontentarsi di un riconoscimento simbolico o se alzare ancora la posta.


