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GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Nei giorni in cui ancora non si è spenta l'eco del “pasticciaccio” di Atreju, resta caldo il fronte aperto dalla premier Giorgia Meloni sulla nuova legge elettorale. Un terreno che di solito esplode sotto i piedi di chiunque ci metta mano, ma che la premier vede come la chiave per blindare l’attuale legislatura e accompagnare nella prossima il premierato con un sistema più coerente.
Come noto, l’idea è una legge proporzionale con premio di maggioranza. Una proposta che, sulla carta, dovrebbe spaventare l’opposizione e rassicurare il centrodestra. Ma come spesso accade le cose non stanno come appaiono, anche perché nel disegno meloniano c'è una clausola piuttosto controversa: l'indicazione del nome del premier.
Gli alleati di FdI, per ovvi motivi, appaiono tutt’altro che convinti. L'azzurro Adriano Paroli ha avvertito che indicare il premier sulla scheda non è una buona idea, ricordando che «la stabilità è un valore, ma lo è anche la rappresentatività», e che l’Italia è, resta e rimarrà una Repubblica parlamentare.
Un messaggio che suona come un freno a mano tirato proprio mentre Meloni prova a spingere. Paroli evoca persino il 2018, quando i rapporti di forza cambiarono all’improvviso: Berlusconi dato per favorito, Salvini primo nella coalizione. E se succedesse di nuovo? Domanda che, da sola, basterebbe a congelare qualsiasi riforma.
Dall’altro lato, però, Meloni sta già studiando piani alternativi, magari con un alleato inaspettato. Il nome potrebbe essere quello di Giuseppe Conte, che nelle ultime settimane ha già preso le distanze dal Pd su sicurezza e ordine pubblico, confermando una volta di più che la logica del Campo Largo per lui spesso è più un vincolo che un progetto. Il caso Atreju – il duello mancato tra Meloni e Schlein – ha mostrato quanto Conte sia disposto a smarcarsi quando gli conviene.
Successe già lo scorso giugno, quando sul referendum sulla cittadinanza decise di restare più vicino all’orientamento prevalente dell’opinione pubblica invece che al fronte Pd- Avs. E sta accadendo di nuovo.
Sulla legge elettorale, poi, il leader M5s ha un precedente non da poco. Da presidente del Consiglio, il 18 gennaio 2021, alla Camera disse: «Il governo si impegnerà a promuovere un impianto di riforma elettorale di impronta proporzionale (…) che coniughi l’esigenza di rappresentanza con quella, pur ineludibile, di garantire governabilità».
Una frase che oggi sembra uscita direttamente dalla cartella stampa di Palazzo Chigi. Meloni non ha dimenticato quella dichiarazione, né il fatto che il M5s – pur oscillante e imprevedibile – trarrebbe giovamento di un sistema senza i collegi uninominali, che accentuerebbero il gap elettorale col Pd.
Le distanze restano sul nodo dell’elezione diretta o indiretta del premier. Ma è difficile ignorare che anche nel centrodestra l’unità su questo punto è tutt’altro che granitica. La premier, che intuisce che costruire un fronte trasversale sulla legge elettorale avrebbe due effetti immediati: dare slancio alla riforma elettorale e, allo stesso tempo, indebolire ulteriormente il rapporto già complicato tra Schlein e Conte. Un rapporto che la vicenda Atreju ha logorato come poche altre. La segretaria dem si trova di fronte a un paradosso: difendere l’alleanza con Conte, che però nei fatti la espone quotidianamente. E Conte, che non ha i vincoli interni del Pd, continua a muoversi con grande libertà. Lo ha fatto sul referendum, lo fa sulla sicurezza, potrebbe rifarlo sulla legge elettorale. E Meloni questo lo sa bene.
Enrico Borghi, di Italia Viva, sospetta un disegno politico della premier: «Meloni vuole svuotare Lega e Forza Italia», replicando un «modello Zaia al contrario», cioè estendendo la propria presa su tutto il territorio e su tutto il perimetro del centrodestra. Che sia vero o meno, l’accusa fotografa un sentimento crescente nella coalizione: la paura che la riforma elettorale diventi un’arma nelle mani di Palazzo Chigi, più che una garanzia di stabilità.
Ma la partita non si gioca solo su sospetti, diffidenze e aritmetiche parlamentari. La posta in gioco è l’assetto complessivo della prossima legislatura. E questo tipo di match di solito non si disputa a colpi di dichiarazioni ufficiali, distinguo tecnici o comunicati prudenti, bensì nei corridoi di Palazzo, negli abboccamenti, negli incontri riservati. E sotto il pelo dell'acqua ci può stare che la “strana coppia” Meloni-Conte possa giocare con la stessa casacca, almeno sul fronte della legge elettorale.


