L’eventualità che l’amministrazione Trump confermi o aggravi i dazi sulle importazioni europee rischia di avere un impatto significativo sull’economia italiana. Secondo un’analisi dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, elaborata sulla base di dati Ocse, i dazi attualmente in vigore potrebbero costare al nostro Paese circa 3,5 miliardi di euro in mancate esportazioni. Uno scenario ben più pesante si aprirebbe se le tariffe doganali venissero innalzate al 20%: in quel caso il danno potenziale salirebbe a 12 miliardi di euro.

L’Italia ha una forte vocazione all’export verso gli Stati Uniti. Nel 2024 il valore delle esportazioni ha toccato i 64,7 miliardi di euro, pari al 9% del totale nazionale, rendendo gli Usa il secondo mercato di riferimento dopo la Germania. I comparti più rappresentativi sono quello chimico-farmaceutico, gli autoveicoli, le imbarcazioni e le macchine industriali, che da soli rappresentano oltre il 40% delle esportazioni italiane Oltreoceano.

Ma cosa accadrebbe se le barriere doganali fossero rafforzate? Le domande restano aperte: i consumatori e le imprese americane continueranno ad acquistare prodotti italiani, oppure si orienteranno verso alternative locali o di altri Paesi? Le aziende italiane riusciranno a mantenere i prezzi competitivi assorbendo l’impatto delle tariffe nei propri margini?

Secondo la Banca d’Italia, il 92% dell’export italiano verso gli Usa è costituito da prodotti di qualità media o alta, destinati a una clientela a reddito elevato che potrebbe rimanere indifferente a un eventuale aumento dei prezzi. Inoltre, le imprese italiane esportatrici registrano una media del 5,5% di fatturato dagli Stati Uniti e un margine operativo lordo pari al 10% dei ricavi: una situazione che consentirebbe in molti casi di contenere gli effetti dei dazi senza uscirne gravemente compromesse.

Tuttavia, l’impatto potrebbe essere asimmetrico tra territori e settori. Le esportazioni del Mezzogiorno risultano più vulnerabili: molte regioni del Sud presentano una bassa diversificazione merceologica, il che le rende maggiormente esposte a scossoni nei mercati internazionali. A determinare questo rischio è l’indice di diversificazione dell’export regionale calcolato dalla Cgia.

La Sardegna, con il 95,6% delle esportazioni concentrate nella raffinazione del petrolio, risulta la regione meno diversificata d’Italia. Seguono Molise (86,9%) e Sicilia (85%), anch’esse fortemente legate a pochi settori. L’unica eccezione nel Sud è la Puglia, che con un indice di diversificazione del 49,8% si colloca al terzo posto nazionale tra le regioni meno esposte.

Diversa la situazione al Nord, dove la Lombardia (43%), il Veneto (46,8%), il Trentino Alto Adige (51,1%) e l’Emilia Romagna (53,9%) presentano una struttura esportativa più bilanciata e quindi potenzialmente più resistente alle turbolenze commerciali.

Le cinque aree che esportano di più verso gli Usa nel 2024 sono la Città metropolitana di Milano (6,35 miliardi), Firenze (6,17), Modena (3,1), Bologna (2,6) e Torino (2,5). Insieme, queste realtà territoriali rappresentano quasi un terzo dell’intero export italiano destinato agli Stati Uniti.