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MATTEO SALVINI MINISTRO INFRASTRUTTURE
Toh chi si rivede: la “disinformatia” di sovietica memoria. Ma stavolta in una salsa mediterranea, maturata all'ombra dei palazzi romani. L’avvicinarsi di due scadenze politiche pesanti – le Regionali in Veneto, Puglia e Campania e, sullo sfondo, il voto parlamentare di inizio 2026 per il rinnovo dell’autorizzazione ai pacchetti di aiuti militari all’Ucraina – sta producendo in Italia un fenomeno già visto in altre fasi delicate della guerra: l’attivazione di una campagna mediatica martellante, costruita attorno alla narrazione più favorevole agli interessi del Cremlino.
Una saldatura improvvisa, ma non casuale, tra propaganda filorussa, settori politici in difficoltà e porzioni dell’opinione pubblica stanche del conflitto. Il primo fronte riguarda la Lega. Ridotta all’angolo dal calo di consensi e da un test elettorale in Veneto che per Salvini vale quasi una verifica di leadership, il Carroccio ha deciso di spingere su un terreno che oggi gli garantisce visibilità: il racconto dello “scandalo corruzione a Kiev”, agitato come arma politica per mettere in discussione gli aiuti occidentali all’Ucraina. Salvini lo ripete da settimane: prima di inviare nuove armi «bisogna capire che fine fanno». Un refrain che intercetta il sentimento pacifista di una parte degli elettori, ma che soprattutto coincide, parola per parola, con la narrativa di Mosca. E non è un caso che i titoli più allarmistici su un’Ucraina “mangiata dai corrotti” compaiano a ondate sincronizzate sui media italiani più critici sull'aiuto militare. C'è poi un passaggio parlamentare tutt’altro che secondario.
A gennaio il Parlamento dovrà di nuovo esprimersi sul mandato al governo per la prosecuzione dei pacchetti di aiuti militari. Un appuntamento che la Lega, se potesse, vorrebbe evitare: dall’inizio del conflitto, infatti, il partito di Salvini è stato costretto ad allinearsi alla maggioranza, firmando voti che hanno irritato la base più filorussa e indebolito la coerenza della sua linea. Ora che il nodo torna al pettine, la tentazione di aprire una faglia politica è evidente. Ed è altrettanto evidente lo sforzo di spostare il baricentro del dibattito sul “caso Kiev”, mettendo in discussione l’affidabilità del governo Zelensky come argomento per frenare l’impegno italiano. In questo clima si inseriscono le parole di Luca Zaia, che nei
giorni scorsi ha invocato una “svolta diplomatica”, sostenendo che l’Ucraina «non può vincere la guerra contro la Russia» e che Trump «si gioca la credibilità» sulla pace. Interventi che amplificano la pressione sul governo, proprio mentre Giorgia Meloni ribadisce la linea atlantica e prova a tenere unita una coalizione attraversata da pulsioni divergenti. A disinnescare il gioco delle parti prova Guido Crosetto. Il ministro della Difesa, che ieri al Quirinale ha partecipato al Consiglio Supremo di Difesa, arrivando con una cartellina destinata a segnare il tono della discussione: un dossier sugli attacchi ibridi subiti dall’Italia, con un capitolo dedicato proprio alla dimensione cognitiva della guerra, cioè al modo in cui le campagne di disinformazione si agganciano alle fragilità interne dei Paesi europei. È un messaggio trasversale, rivolto anche a chi – dentro e fuori il Parlamento – ripropone acriticamente frame narrativi che coincidono con quelli di Mosca. E lo stesso dossier, ha anticipato Crosetto, verrà trasmesso al Parlamento.
La maggioranza, almeno ufficialmente, ostenta compattezza. Ignazio La Russa assicura che «non ci sono rischi», ricordando che su tutti i precedenti voti sull’Ucraina centrodestra e una parte dell’opposizione hanno sempre marciato insieme. Ma la tensione è palpabile. Lo dimostrano le parole di Lucio Malan, che da un lato riconosce la necessità di «verifiche sull’uso dei fondi», dall’altro avverte che «non si può far venire meno l’impegno dell’Italia». Una linea che il Pd rivendica apertamente: Francesco Boccia parla di un governo “condominio litigioso”, accusa Salvini di «fare il portavoce di Mosca» e rilancia il sostegno agli aiuti nel 2026. Mentre Lia Quartapelle fa notare che «dopo le uscite della Lega», Zelensky sta evitando Roma.
Il M5S, su questo terreno, è dalla stessa parte della Lega, come ai tempi del governo gialloverde: con Riccardo Ricciardi definisce “folle” la strategia dell’invio di armi e accusa l’Occidente di «ipocrisia massima». E così, mentre dal Quirinale si analizzano minacce ibride e strategie di sicurezza europea, la politica italiana si ritrova a fare i conti con la saldatura più insidiosa: quella tra campagna elettorale, propaganda esterna e debolezze interne.


