Dopo un’estate dominata dalle questioni internazionali, Giorgia Meloni ha deciso di riportare l’attenzione sul fronte interno. Non è un caso: a fine settembre si vota nelle Marche, prima tappa di una tornata regionale che si annuncia decisiva.

Un test che vale doppio, perché le Marche, come è noto, sono l’unica regione al voto governata da un fedelissimo della premier, Francesco Acquaroli. E proprio per questo, il rischio è alto: perdere significherebbe non solo consegnare al Campo Largo un successo simbolico, ma anche concedere agli alleati – in primis Matteo Salvini - un margine negoziale più ampio nelle partite successive.

Con un video diffuso lunedì mattina, Meloni ha chiarito il registro della campagna: niente toni esasperati, niente polemiche scomposte, ma una narrazione rassicurante, quasi pedagogica, che punta a mettere in fila le “cose fatte” dal governo. L’idea è blindare il consenso attorno alla figura della presidente del Consiglio, raffreddando le tensioni interne al centrodestra e offrendo agli elettori un’immagine di stabilità.

Ma a Palazzo Chigi non sfugge l’insidia. La premier avrebbe preferito iniziare altrove, magari in un territorio non così identificato con la sua leadership personale. Invece si trova a giocarsi tutto sul terreno di un governatore meloniano, con il rischio che una sconfitta marchigiana si trasformi in un boomerang nazionale.

Non solo un “+ 1” per l’opposizione, ma anche una perdita di forza in vista delle trattative sulle candidature in Veneto, che saranno ufficializzate dopo la chiusura delle urne marchigiane. Qui il voto sarà un vero spartiacque della coalizione.

Non è un dettaglio che Matteo Salvini, con le sue frasi sibilline, abbia già segnalato la rilevanza del voto nelle Marche, pronto a mettere la firma sulla sfida elettorale, in modo da incassarne i dividendi o, all’opposto, scaricare eventuali responsabilità sulla premier.

Ecco perché Meloni ha deciso di alzare la posta. Il 17 settembre sarà ad Ancona, per il comizio di chiusura in piazza Cavour, insieme a Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi. Una foto di famiglia che vuole trasmettere compattezza, anche se le dinamiche interne raccontano altro: Forza Italia resta più allineata sul fronte internazionale, come confermato dalle parole del ministro degli Esteri Tajani, che ha ribadito la volontà di costruire per l’Ucraina un sistema di sicurezza simile all’articolo 5 della Nato, giudicando la proposta italiana «la più ragionevole e concreta».

Una posizione che segna la distanza dalla linea francese dei Volenterosi, da cui Meloni si tiene lontana partecipando solo in collegamento al vertice di domani voluto da Macron. La scelta di privilegiare la piazza marchigiana rispetto alla ribalta internazionale è emblematica. Nella stessa giornata in cui ha annunciato la presenza ad Ancona, da Palazzo Chigi è filtrata la notizia che Meloni non volerà a Parigi. Una mossa che marca la distanza dalla linea interventista transalpina, ma che soprattutto racconta la volontà della premier di non farsi sottrarre nemmeno un centimetro dall’arena elettorale interna. I rapporti tra Roma e Parigi sono ai minimi storici, e la scelta appare doppiamente significativa.

Sul piano interno, Meloni sa che una vittoria nelle Marche alleggerirebbe anche il passaggio più delicato dell’autunno: la sessione di bilancio. Tradizionalmente una trappola per ogni governo, il varo della manovra potrebbe trasformarsi in un’occasione per rivendicare stabilità e continuità, se rafforzato dal successo elettorale. Non è un caso nemmeno che la premier stia studiando anche il fronte comunicativo, valutando la possibilità di affidare il ruolo di portavoce e narratore dell’azione di governo a Gian Marco Chiocci, attuale direttore del Tg1.

In definitiva, Meloni ha scelto il campo di battaglia, e facendo trasparire la propria determinazione per le Marche ha rivelato anche la paura di perdere. Si potrebbe dire che Ancona da qualche settimana si è aggiunta ai centri della politica nazionale, quasi fosse la capitale simbolica di un autunno cruciale. Vincere lì significherebbe consolidare il proprio ruolo di garante della stabilità, rafforzare la leadership nel centrodestra e presentarsi al Paese come la premier capace di unire governo ed elettorato. Perdere, invece, aprirebbe crepe che Salvini non tarderebbe a sfruttare. Ancona, dunque, “val bene una messa”. Perché la tornata che parte dalle Marche non decide solo il destino di una regione, ma l’equilibrio dell'attuale ciclo politico.