L’onda lunga della sconfitta di Roberto Vannacci in Toscana e l’annuncio di Luca Zaia di correre come capolista in Veneto rischiano di mettere una pietra tombale sul progetto di Giorgia Meloni per una nuova legge elettorale. Se la premier punta da mesi a superare il Rosatellum e introdurre un sistema proporzionale con premio di maggioranza per chi supera il 40 per cento e indicazione del candidato premier sulla scheda, dentro il Carroccio aumenta la pressione su Matteo Salvini per evitare quello che da molti è ritenuto un suicidio politico.

L’idea di Palazzo Chigi è chiara fin da gennaio: disegnare un “abito” elettorale che possa essere adattato poi al premierato, nella prossima legislatura. Niente più collegi uninominali — oggi circa il 37 per cento dei seggi — e premio del 55 per cento a chi ottiene almeno il 40 per cento dei voti. Con la vittoria automatica della coalizione e il nome del premier già stampato sulla scheda. Un meccanismo costruito per blindare il potere della destra e impedire che uno scenario politico più compatto a sinistra ribalti il “cappotto” del 2022, quando le divisioni tra Pd, M5S e Terzo Polo regalarono al centrodestra 180 collegi e una maggioranza schiacciante. Ma se per Meloni il superamento degli uninominali è una garanzia, per la Lega rappresenta un rischio mortale.

Alle ultime Politiche, con l’ 8 per cento dei voti, il partito di Salvini ottenne il 15 per cento dei deputati proprio grazie all’assegnazione dei collegi sulla base di sondaggi favorevoli risalenti a prima del 2022. In un sistema puramente proporzionale, quel margine sparirebbe. Per questo, dietro lo scetticismo ufficiale, si nasconde un altro troncone della “rivolta” interna in corso al Nord.

A guidarla è l’asse veneto- lombardo. Dopo la batosta toscana, i dirigenti storici della Lega hanno rialzato la testa, spingendo per un ritorno a un partito a trazione settentrionale o, quantomeno, per una struttura federale sul modello tedesco: un partito radicato al Nord come la Csu in Baviera. Zaia si è già detto favorevole, e la sua candidatura da capolista alle Regionali venete può trasformarsi in un plebiscito che darebbe alla componente nordista una forza negoziale enorme. In questo scenario, la prospettiva di farsi espropriare anche dei collegi territoriali dal partito della premier diventa inaccettabile. Non si tratta solo di orgoglio territoriale. Eliminare i collegi significa togliere alla Lega l’unico vantaggio competitivo che le resta. E la scelta

del premier sulla scheda, ovviamente a favore di Meloni, comporterebbe un ulteriore drenaggio di voti interni alla coalizione — calcolato in 700- 800mila preferenze. Un problema che inquieta anche Forza Italia: Tajani ha già messo le mani avanti, invocando la possibilità per ogni partito di indicare il proprio candidato a Palazzo Chigi. Dietro le formule di circostanza si nasconde un dissenso concreto che, per ora, non è ancora esploso solo per ragioni di equilibrio politico nella maggioranza. Il progetto meloniano presenta anche nodi tecnici e politici tutt’altro che banali. La riforma costituzionale sul premierato, ancora in itinere, prevede infatti un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza al premier. Se nel frattempo venisse approvata una legge elettorale diversa, si dovrebbe tornare a riscriverla. E se, al contrario, la si usasse per introdurre surrettiziamente l’elezione diretta senza modificare la Carta, rischierebbe di essere dichiarata incostituzionale.

In più, la destra dovrebbe affrontare la madre di tutte le questioni: chi decide il candidato premier? Finora è stata una regola non scritta a stabilire che il leader del partito più votato guida il governo, ma obbligare gli altri partiti a mettere nero su bianco il nome del leader del partito di maggioranza relativa è un altro paio di maniche, soprattutto quando uno di questi partiti si chiama “Lega per Salvini premier”.

Ecco perché nella Lega del Nord la parola d’ordine è una sola: «la legge elettorale non deve passare». I vari Romeo, Fontana e i colonnelli storici hanno già fatto sapere che il Carroccio non accetterà di essere messo all’angolo in nome di un disegno cucito su misura per Giorgia Meloni. Se la premier tirerà dritto, lo scontro sarà inevitabile: non una scaramuccia parlamentare, ma una battaglia politica vera, da aggiungere ai contenziosi già pendenti sul tavolo di maggioranza.