Secondo colpo di scena di Giovanni Toti, indagato agli arresti domiciliari, ma governatore presente in aula domani quando il consiglio regionale discuterà la mozione presentata dalla sinistra contro di lui. La sua voce ci sarà, rivendicherà e denuncerà. Che la proposta di sfiducia, presentata dalle opposizioni della Regione Liguria, sarà respinta, è la classica non- notizia, questione ovvia di numeri. Si sa che servirà solo, come sempre, ai personaggi politici che hanno preso l’iniziativa, a parlare, strillare, cercare i titoli di giornale.

Ma quello che non era affatto previsto, nell’attesa del D- day, è stato il secondo colpo di teatro messo a punto da Giovanni Toti. Che si è preso la parola, a voce alta. Come già era capitato il giorno in cui è stato interrogato e aveva battuto sul tempo gli uomini dell’accusa, i veri esperti sulla comunicazione. Quella volta, prima ancora che uscissero dalla porta i testi delle 167 domande con relative risposte, dalla finestra era scappata via l’autodifesa del governatore. Il quale, non si sa come, era riuscito a far uscire per primo il proprio documento, mentre ancora i partecipanti all’incontro, i pm Luca Monteverde e Federico Manotti, con il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati, stavano firmando i verbali dell’interrogatorio.

E così sabato scorso, mentre gli esponenti politici di sinistra già assaporavano una giornata in cui avrebbero comunicato solo loro, e celebrato le difficoltà politiche di un presidente in vinculis, ecco il colpo di scena: Giovanni Toti ha deciso che quel giorno, cioè domani, lui parlerà. Lo farà tramite il presidente del suo gruppo politico in consiglio Alessandro Bozzano, che leggerà un documento consegnato a uno dei componenti della giunta più vicini al presidente, l’assessore all’ambiente e protezione civile Giacomo Giampedrone, che ha potuto incontrare sabato scorso per alcune ore nel suo domicilio coatto. Il paradosso, che ha consentito l’apertura di una maglia sulle regole degli arresti domiciliari, è che è stata proprio l’iniziativa dei suoi antagonisti politici a consentire a Toti di essere in qualche modo presente al consiglio del 4 giugno. E anche di far già sapere che cosa succederà quel giorno, dal momento che la maggioranza sarà al fianco del governatore nel «respingere senza indugi e con assoluta fermezza la mozione di sfiducia».

I giochi politici sono fatti. E flebile esce la voce di Andrea Orlando, spezzino ex ministro Pd, che parla di “Liguria bloccata” e investimenti perduti. Perché è piuttosto evidente come non sia Giovanni Toti a tenere fermo lo sviluppo della Regione, ma il fatto che, per motivi ormai poco comprensibili, viene ancora tenuto ai domiciliari. Nonostante non sia in alcun modo nelle condizioni di ripetere un reato legato alle campagne elettorali e nemmeno di inquinare le prove, dal momento che ormai i pm hanno sentito quasi tutti i possibili testimoni, come persone informate sui fatti. L’apertura di sabato scorso, con l’autorizzazione della gip Paola Faggioni e il parere favorevole della procura, ha consentito al presidente e all’assessore di svolgere per qualche ora una sorta di lavoro d’ufficio, una mini giunta in cui esaminare alcuni dossier e programmare il futuro.

Ha giovato a questo clima probabilmente anche l’accortezza dell’avvocato Stefano Savi, legale di Toti. Il quale non si è mai posto in posizione frontale nei confronti dei magistrati, pur sostenendo con fermezza l’estraneità del suo assistito dai reati contestati di corruzione e violazione delle leggi elettorali.

Anche il fatto di non essersi precipitato a richiedere la revoca della misura cautelare, probabilmente inutile visti i precedenti degli altri indagati, ha dato la sensazione del rispetto nei confronti dei tempi delle attività investigative. Che, a quanto dicono i quotidiani bene informati sull’attività della procura, come il Secolo XIX, da poco passato nelle mani dell’armatore Gianluigi Aponte, proprietario di Msc e competitor di Aldo Spinelli, saranno lunghi. Ben oltre le elezioni europee di sabato e domenica prossimi. Quelle la cui scadenza ha determinato, secondo quanto ha affermato la stessa magistratura genovese, la necessità degli arresti. Su cui non è semplice fare il punto della situazione e capire bene quale sia il bandolo della matassa che ha fatto nascere e poi sviluppare questa inchiesta.

È nata a La Spezia, proprio la città di Andrea Orlando, ma anche la stessa da cui proviene anche uno dei pm oggi genovesi, Luca Monteverde, e riguarda non Giovanni Toti ma il suo capo di gabinetto, Matteo Cozzani, ex sindaco di Portovenere che vagheggiava un progetto immobiliare sull’isola di Palmaria.

Parte tutto di lì, e poi dall’incrocio di indagini su reati elettorali e la “fortuna” di incontrare, tra le persone sospettate di voto di scambio, un sindacalista della Cgil, Venanzio Maurici, fieramente comunista e indignato all’idea di essere accomunato politicamente a Giovanni Toti, il quale finisce nelle indagini in quanto membro di una comunità di siciliani, i “riesini”, emigrati al nord trent’anni fa. È questa “fortuna” che fa cambiare tutto, con la contestazione, se pur non a Toti, dell’aggravante mafiosa che tutto permette, nella logica del doppio binario del diritto. Ha ben spiegato Luca Palamara in un articolo sul Giornale, che tutti quei reati elettorali sono prescritti. Pure hanno consentito, applicando una sorta di proprietà transitiva, di tenere sotto controllo per circa quattro anni tutta l’attività amministrativa di Toti e del suo ufficio. Un altro magistrato, Alberto Cisterna, ha denunciato con un articolo sul Messaggero le «vittime collaterali» della «idrovora delle intercettazioni ambientali e del trojan», che ha finito con il coinvolgere la reputazione anche di persone non indagate come il sindaco di Genova e l’ex procuratore della Repubblica del capoluogo ligure.

Come se tutto ciò non fosse stato sufficiente, ci si è messa anche la Commissione Bicamerale Antimafia che, pare su insistenza degli esponenti del Pd, ha voluto convocare il procuratore di Genova Nicola Piacente, l’aggiunto Vittorio Ranieri Miniati e il pm Luca Monteverde. Si cercava la “mafiosità” di Toti, nel più schietto spirito grillino. Non è stata trovata perché né i pm né la gip Paola Faggioni avevano osato spingersi a tanto. Però, però. Come non essere sospettosi sull’origine e le modalità di questa inchiesta, condotta tutta da toghe di Magistratura Democratica, e sarà casuale, quando lo stesso ministro Nordio, pur parlando in termini generali, nella sua più recente intervista al Giornale ha messo in guardia dai “fascicoli virtuali”?

È quello, ha spiegato, che usa il pm quando vuol indagare una persona «magari ipotizzando un reato inesistente, che gli consenta di chiedere le intercettazioni. Ad esempio contestando l’associazione mafiosa. Poi quel reato cade, ma le intercettazioni restano». Con tutto quel che ne consegue. È andata così anche l’inchiesta su Giovanni Toti?