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FRANCESCO LOLLOBRIGIDA, DELEGATO CDM E MINISTRO MASAF
C’è una nota di verità, quasi di emancipazione, nelle parole con cui Francesco Lollobrigida - intervistato da Carmelo Caruso per il Foglio - ha riconosciuto che la destra italiana ha vissuto per decenni di riflessi condizionati sulla giustizia. Il ministro ha ammesso una serie di peccati storici di giustizialismo della sua parte politica, e non è cosa banale.
È il riconoscimento che proprio quel terreno, per anni il più scivoloso per la destra post- missina, oggi è diventato il banco di prova della sua maturazione culturale. Una transizione verso un autentico garantismo di governo che il referendum sulla separazione delle carriere potrebbe sancire in modo definitivo. E che per questo scuote identità, nervi e vecchie liturgie.
Lo si è visto negli ultimi mesi, in quella cautela che riaffiora puntuale ogni volta che la riforma entra nella fase decisiva. Le frasi di Ignazio La Russa sulla necessità di muoversi «con prudenza» non sono un incidente: sono la voce di un passato che ancora esercita la sua gravità.
La tradizione del Msi e poi di Alleanza Nazionale, dove al sospetto verso i magistrati si accompagnava un timore quasi reverenziale per le toghe, continua a riaffiorare come un riflesso pavloviano. Il risultato storico è stato un garantismo intermittente, più pronto a denunciare gli eccessi delle procure che a sostenere riforme strutturali.
La riforma Nordio, e ancor più il referendum, costringono però la destra a guardarsi allo specchio. Perché se è vero che la maggioranza ha trovato sulla giustizia uno dei rari terreni di armonia, è altrettanto vero che le crepe non sono mai scomparse del tutto.
Lo ha mostrato il caso Delmastro, con quelle osservazioni sfuggite di bocca che sembravano ricalcare le critiche delle correnti più ostili della magistratura. E lo confermano i distinguo che emergono ciclicamente nei vertici di maggioranza, come se la destra temesse sempre l’ultimo passo: quello che trasformerebbe la riforma da battaglia identitaria a svolta istituzionale.
Lollobrigida indica un’altra direzione. Riconosce che il garantismo non è un vezzo culturale, ma il marchio di una destra finalmente adulta, capace di superare la tentazione populista della “giustizia sommaria” e di accettare la modernizzazione profonda del sistema. Non a caso il ministro ricorda che la fase attuale impone scelte nette: non basta evocare Berlusconi come icona del garantismo, occorre fare ciò che neppure lui riuscì a ottenere per intero. E cioè passare dalla polemica contro i magistrati all’architettura di un ordinamento più equilibrato.
Ed è qui che la vicenda degli ultimi giorni – la manipolazione dell’immagine di Paolo Borsellino da parte dei partigiani del “no” – assume un valore simbolico enorme. La destra si trova accusata utilizzando una delle sue icone più sacre, un magistrato che la cultura post- missina ha trasformato negli anni in un emblema identitario. Vederne l’immagine distorta a fini propagandistici ha provocato uno scatto d’orgoglio: non per il gusto della polemica, ma perché quel gesto rivela quanto la giustizia continui a essere il campo in cui si tenta di riscrivere la storia politica italiana.
Difendere la correttezza del confronto referendario, in questo senso, diventa quasi un dovere morale. E il travaglio irrisolto, d'un tratto, può compiersi.
Le esitazioni di La Russa, le uscite di Delmastro, i silenzi strategici di parte di Fratelli d’Italia non sono solo tattica: sono la prova che il passaggio da forza di opposizione a forza istituzionale necessita di un ultimo miglio. Quando all’inizio della legislatura Meloni scelse Nordio per la Giustizia, rinunciando alla richiesta di Forza Italia di affidare il ministero a una figura più politica, fu chiaro a tutti che la riforma sarebbe stata una frontiera interna sensibile. Oggi quella frontiera è di nuovo davanti alla maggioranza, amplificata dal referendum.
Il punto, come suggerisce Lollobrigida, è che non si può più oscillare. O la destra accetta di misurarsi con una giustizia finalmente separata nei ruoli, con un ordinamento meno corporativo e più garantista, oppure rischia di restare impantanata nel suo eterno dualismo: protestare contro i magistrati, ma temere la riforma che corona il passaggio al sistema introdotto quasi 40 anni fa. Il referendum rappresenta quindi molto più di un quesito tecnico: è la prova di maturità di una leadership che vuole definirsi post- ideologica e occidentale, liberale e conservatrice. E forse proprio per questo, per la prima volta, il vecchio “braccino” potrebbe non bastare. Perché la destra, oggi, non è più chiamata ad invocare giustizia: è chiamata a riformarla. E a dimostrare che il passo che ha sempre esitato a compiere – il passaggio definitivo da identità a responsabilità – è finalmente alla sua portata.


