PHOTO
LUIGI MANCONI EX PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE STRAORDINARIA PER I DIRITTI UMANI DEL SENATO
Femminicidi, immigrazione, sicurezza. La risposta della politica ai fenomeni sociali è sempre la stessa: introdurre nuovi reati. Anche quando i numeri ci raccontano un’altra storia, anche quando sappiamo che la curva dei reati violenti è in discesa.
L’equazione resta invariata. E chi contribuisce all’allarme, resta sordo a un dato ormai acquisito: la “spada penale” non può essere la ricetta contro ogni male. E di certo non “cancella” i problemi con cui ci confrontiamo come per magia, se alla sanzione non affianchiamo mai gli strumenti dell’educazione.
Di tutto questo si è parlato sabato 16 maggio con Luigi Manconi, ospite del Dubbio nella cornice del Salone del libro di Torino. L’incontro era imperniato sui due poli del dibattito - “educare o punire” - che si è ripresentato con forza in seguito agli ultimi provvedimenti licenziati dal governo Meloni. Non soltanto con il decreto Sicurezza approvato “senza” Parlamento, ma anche sui reati di genere, con il ddl sul femminicidio presentato dall’esecutivo in occasione dell’8 marzo.
Il provvedimento introduce una fattispecie autonoma e la lega all’ergastolo. Affidandosi ancora una volta, ragiona Manconi, «a un’ipotesi smentita da tutte le ricerche scientifiche sul tema, secondo la quale maggiore è la sanzione, minori sono i reati». «Ma è dimostrato da cinquant’anni sottolinea - che l’inasprimento delle pene non dissuade dal commettere un dato reato».
Sociologo, scrittore, politico, Manconi analizza il fenomeno con la lente opposta a quella del demagogo. E anche nel rapporto tra patriarcato e femminicidi legge una correlazione «meno rozza di quanto si creda». «Si dice che più c’è patriarcato, più si uccidono le donne, ma questa è solo una variabile. L’altro fattore, che rimanda all’alto numero di femminicidi in paesi come quelli scandinavi, qualifica questa attività criminale come forma disperata, estrema - e sia chiaro -, folle, di difesa del maschio di fronte ai processi di emancipazione femminile».


Si tratta di «una reazione irrazionale, e massimamente criminale», puntualizza Manconi, nei confronti della quale le politiche penali rischiano di fallire. «Negli ultimi anni c’è una categoria, che è quella di populismo penale, che come tutte le formule è un po’ abusata e non facile da spiegare - dice Manconi -. Spesso veicola luoghi comuni, ma se c’è una manifestazione limpidissima del populismo penale è proprio la volontà di introdurre il reato autonomo di femminicidio. Perché il populismo penale è una forma demagogica di criminalizzazione della vita sociale. E cosa c’è, nell’Italia contemporanea, di più demagogico del dichiarare di voler cancellare il femminicidio?. Qual è l’impegno che può ottenere più consensi di questo? Io non credo che ve ne siano altri - prosegue -. Evocare quindi il femminicidio e spacciare un provvedimento come questo, quale fosse la soluzione al fenomeno, è esattamente un’operazione demagogica che solletica e sollecita gli umori più oscuri dell’animo umano, la volontà di vendetta in ogni caso».
Ecco le parole, populismo e vendetta, che ricorrono nel corso dell’incontro per inquadrare anche le politiche sul carcere e il decreto Sicurezza. Che introduce 14 nuovi reati e 9 aggravanti.
«Non tutti i dati sono così inequivocabili e incontestabili - riprende Manconi -, ma sappiamo con chiarezza e coerenza che gli omicidi volontari, fattore di massimo allarme sociale, sono calati dal 1992 ad oggi di quattrocento unità all’anno. Tuttavia, questa riduzione così clamorosa non ha portato l’opinione pubblica italiana ad avvertire una maggiore sicurezza». Come lo spieghiamo?
«Io penso molto semplicemente che la responsabilità sia della politica - risponde Manconi -. La spiegazione sta esattamente in ciò che la politica, o per meglio dire alcuni partiti politici, hanno fatto della sicurezza, del problema dell’immigrazione». Che viene presentato costantemente, dice il sociologo, sotto l’etichetta dell’invasione. Un paese come il nostro, dove avvengono tragedie e crimini, ma che «sta perfettamente in linea con tutti gli standard di sicurezza dei paesi occidentali, viene presentato come una bolgia dantesca di efferati crimini». Il tutto attraverso un «processo di manipolazione delle coscienze» al termine del quale l’opinione pubblica finisce per sentirsi inevitabilmente insicura.
Manconi ne ha anche sul tema del carcere, in particolare per l’introduzione del reato di rivolta dietro le sbarre anche per le forme di resistenza passiva come lo sciopero della fame. Che per il detenuto - sottolinea - rappresenta un importante processo di emancipazione culturale.
«Chi rinuncia alla protesta violenta per fare uno sciopero della fame, è un detenuto che ha fatto il primo, magari piccolo, ma assai significativo passo verso l’integrazione e l’inclusione nel sistema dei diritti», dice Manconi. «Ecco perché deve indignare quella norma» contenuta del decreto Sicurezza, «perché l’hanno voluta pensando di colpire le rivolte e invece si avrà il solo effetto di incentivarle». Ma tutto questo ci conduce verso lo Stato di polizia, come crede qualcuno? «No, io sostengo l’esatto contrario - chiosa Manconi -. L’evocazione dello Stato di polizia, o ancor più l’evocazione del fascismo, è un miserabile trucco. Io non penso in alcun modo che in Italia ci sia il fascismo, e non penso che mai ci sarà. Ma attenzione: in presenza di una democrazia, come quella italiana, non sono escluse tendenze autoritarie. Alcune cose che stanno succedendo negli Stati Uniti ci dicono che il pericolo è reale. Concentrazioni di potere che non necessariamente comportano una rottura democratica, ma una crisi della democrazia e dello Stato di diritto per come l’abbiamo voluti, pensati e desiderati. Derive illiberali che non necessariamente sono destinate a vincere, anzi sono convinto che possano essere sconfitte».