L’aggressione filmata con uno smartphone da un turista ebreo francese in una stazione di servizio vicino a Milano sta portando a dei risvolti giudiziari. La procura di Milano ha infatti aperto un fascicolo, dopo gli insulti antisemiti. Il reato ipotizzato è percosse aggravate dall’odio razziale. Sull’episodio interviene Donatella Di Cesare, filosofa e saggista molto attenta anche alle vicende del Medio Oriente. «Il clima – commenta Di Cesare – si sta facendo sempre più pesante con convinzioni errate che si diffondono rapidamente tra le persone. Ho l’impressione che in quest’ultimo periodo si sia diffusa l’idea che gli israeliani sarebbero tutti, più o meno, d’accordo sulla repressione in corso a Gaza e che quindi in qualche modo sarebbero tutti responsabili della situazione catastrofica venutasi a creare».

Professoressa Di Cesare, l’episodio dell’autogrill nei pressi di Milano, dove è stato aggredito un cittadino francese di religione ebraica, deve farci preoccupare?

Prima di tutto, si tratta di un episodio deprecabile sotto ogni punto di vista e da condannare senza alcuna esitazione. Aggredire un padre, in quanto ebreo perché portava la kippà, davanti al figlio di sei anni, umiliandolo, è un’azione che non può giustificarsi in nessun modo. Quanto accaduto dimostra, a mio avviso, un clima non solo di odio antiebraico, ma anche di violenza che acuisce le divisioni. Anziché costruire la pace, si fa il contrario. Si alimentano il rancore, l’odio e la violenza. È molto triste e molto allarmante quello che si è verificato due giorni fa.

Certi fatti, come quello che stiamo commentando, sono la dimostrazione di mera ignoranza o di odio religioso calcolato?

Abbiamo a che fare con un fenomeno molto complesso che presenta molti aspetti. Io credo che l’odio antiebraico abbia indubbiamente delle fondamenta datate, delle antiche radici religiose, alle quali va affiancata una dimensione politica anche razzista. Fatta questa premessa, non si può non tenere conto di quanto sta avvenendo a Gaza con la violenza perpetrata su civili inermi, su bambini, su donne e su anziani. Questa situazione, mi preme sottolinearlo, contribuisce in qualche modo a riaccendere un odio antico, che però non può giustificare la violenza. Ecco perché è necessario in questo momento che tutti i cittadini, ai quali stanno a cuore la pace e la democrazia, e in Italia sono la grande maggioranza, devono tenere la barra dritta e sperare nella fine del conflitto il prima possibile senza chiudere gli occhi di fronte al massacro di civili in corso. Allo stesso tempo bisogna evitare che il primo ebreo, che non ha nulla a che vedere con lo Stato di Israele, diventi un capro espiatorio o una persona sulla quale sfogare rabbia e indignazione.

Alcune parti politiche non sembra facciano abbastanza per condannare una serie di pregiudizi e di episodi. Cosa ne pensa?

Chi ha un ruolo o svolge una funzione nello spazio pubblico, penso ai rappresentanti delle istituzioni, ai politici, ai sindacalisti, ma anche ai giornalisti, ha una responsabilità in più. Nel contesto politico molte volte prevale la caccia al consenso. Spesso, in quest’ultimo periodo, ho avuto l’impressione che alcuni esponenti delle categorie alle quali facevo cenno poc’anzi si siano sforzati poco per sottolineare il valore della pace, della convivenza pacifica e del rispetto democratico. La parola Gaza oggi diventa una sorta di richiamo alla violenza. L’episodio del cittadino ebreo francese, aggredito alle porte di Milano, ci deve far riflettere sul valore delle parole, su certi termini che si utilizzano, perché possono portare alla violenza.

Ritiene che la sovrapposizione tra ebraismo e responsabilità dell’attuale governo israeliano sia pericolosa?

Sicuramente. Il governo di Netanyahu, secondo me, non solo ha delle responsabilità, ma ha pure delle colpe etiche e politiche, che probabilmente nel futuro prossimo emergeranno in tutta la loro gravità. Proprio per questo motivo occorre avere la lucidità di saper distinguere. Per ritornare alla sua domanda, io ho l’impressione che in quest’ultimo periodo si sia diffusa l’idea che gli israeliani sarebbero tutti, più o meno, d’accordo sulla repressione in corso a Gaza e che quindi in qualche modo sarebbero tutti responsabili della situazione catastrofica venutasi a creare. Lo dimostrano, purtroppo, gli episodi di antisemitismo e di odio antiebraico che si sono verificati in Italia, in Spagna e in altri Paesi europei. Tanto più questa distinzione va tenuta presente per tutto l’ebraismo della diaspora e per tutti gli ebrei, a cominciare da quelli delle comunità europee, dove noi sappiamo benissimo che il mondo ebraico è molto diviso. Pertanto, è un errore sotto ogni punto di vista ritenere tutti gli ebrei responsabili di quello che avviene a Gaza. Non è questo il modo di costruire la pace.

Nei giorni scorsi quaranta ex ambasciatori hanno scritto una lettera alla premier Giorgia Meloni per esortarla a riconoscere lo Stato della Palestina. Cosa pensa di questa iniziativa?

È un’iniziativa indubbiamente meritoria. Io ho letto con grande attenzione il testo della lettera. I firmatari esortano la presidente del Consiglio con grande convinzione e slancio politico. Io, per quanto mi riguarda, ritengo che il riconoscimento dello Stato di Palestina in questo momento non sia un passo verso la pace. Oggi con il termine Palestina si indicano tante cose. Vuol dire l’Autorità palestinese, vuol dire Hamas, e basta questo per far emergere una situazione di grande ambiguità. Soprattutto parliamo di una entità politica che in questo momento non ha le basi territoriali. Temo e, forse, in questo sono un po' fuori dal coro che il riconoscimento sia un modo anche per raccontare a sé stessi di aver, comunque, fatto qualcosa e acquietare la propria coscienza. Non penso però che nella situazione attuale di Gaza questo approccio possa essere utile. Servirebbe invece con urgenza una azione diplomatica europea per fermare le violenze alle quali stiamo assistendo e alleviare le sofferenze dei gazawi.