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Il giornalista e presentatore televisivo Enzo Tortora nello studio della trasmissione Portobello
Avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca, più di una settimana fa ricorreva l’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora davanti a decine di giornalisti. Qualcosa è cambiato da allora?
Direi che è cambiato tutto, per non cambiare niente, in perfetto stile italico gattopardesco. La comunicazione di quarantadue anni fa era affidata agli operatori professionali e a forme istituzionali quali giornali, radio e televisioni; oggi i nuovi mezzi consentono a chiunque di esprimere opinioni e valutazioni in un immenso, gratuito e incontrollato speakers’ corner modello Hyde Park. Il risultato, però, è il medesimo, le vicende giudiziarie vengono sempre narrate con l’indecente registro della presunzione di colpevolezza. Se allora si poteva pretendere maggiore equilibrio da parte di giornalisti professionisti, oggi temo che la battaglia sia persa in partenza nell’anarchia del processo social-mediatico. È difficile regolamentare fenomeni di per sé ingovernabili, come il sadico interesse dell’opinione pubblica per le sofferenze dettate dalla violenza congenita del processo penale. Carnelutti suggeriva un efficace parallelismo fra il processo penale e i combattimenti dei gladiatori nell’antica Roma: negli anfiteatri il pubblico era attirato dal piacere perverso provocato dalla brutale crudeltà delle lotte, a ben vedere quello stesso piacere che si ritrova oggi nella morbosa attenzione riservata dall’opinione pubblica alle altrui sofferenze giudiziarie. Non bisogna scomodare la psicologia sociale per comprendere come la perdita del senso di umanità sia alimentata dalle continue frustrazioni personali che trovano sfogo proprio nell’emersione di un feroce sadismo populista. Questo per dire che il fenomeno è davvero complesso e meriterebbe un approccio ben più profondo che tenga conto anche delle radici psico-sociali a loro volta legate a fattori politico-economici.
In queste settimane è tornato alla ribalta il caso Garlasco. Secondo lei tutto questo che sta accadendo è da addebitare ad una procura o ad una polizia giudiziaria in cerca di notorietà?
La mia impressione personale è che la riapertura del cold case sia dettata da questioni interne alla magistratura. Non riesco a trovare un’altra spiegazione all’indagine sulle modalità di conduzione dell’indagine. Non mi si dica che è lo scrupolo per la ricerca della verità, perché in tal caso bisognerebbe riaprire almeno la metà dei processi indiziari. Quanto alla notorietà, vorrei ricordare che dalla riforma Castelli del 2006 l’unico legittimato a parlare con la stampa sarebbe il procuratore della Repubblica, concetto ribadito, sia pure con quale slabbratura, nella malferma disciplina del d.lgs. n. 188 del 2001. Se si applicassero rigorosamente le regole, sarebbe difficile fare carriera, anche politica, grazie alla notorietà acquisita sul campo di indagine.
In generale è d’accordo con l’opinione di chi ritiene che talvolta anche il protagonismo di certi avvocati possa alimentare il processo mediatico?
A differenza di pm e polizia, l’avvocato è un privato, un libero professionista che deontologicamente deve curare solo l’interesse del suo assistito nel quale può rientrare anche la comunicazione con i mezzi di informazione, ovviamente nel rispetto dell’eventuale segretezza degli atti. Tuttavia, il chiaro dettato dell’articolo 18 del Codice deontologico non sempre viene rispettato e la comunicazione trasmoda nell’autopromozione, ancora una volta complici i nuovi canali social. Sarebbe auspicabile una maggiore e sempre più vigile attenzione da parte degli organi di disciplina, ma comprendo la difficoltà di controllare lo sconfinato mondo di internet. Resta il fatto che certi atteggiamenti, mostrati anche sui canali tradizionali di informazione, sono censurabili perché finiscono per screditare l’intera avvocatura.


Nella narrazione pesa un eccesso di considerazione della vittima o delle parti civili?
Certamente sì, però è fisiologico nella visione manichea del processo che distingue fra buoni, la vittima e il pm, e cattivi, l’imputato e il suo avvocato complice processuale. Il problema si risolve solo andando a monte della questione, trasferendo anche alla società la cultura del processo di parti governato dalla presunzione d’innocenza. Non è un caso che nel mondo anglosassone, profondamente innervato da questa cultura del processo adversary, siano fiorite una letteratura e una cinematografia che individuano nell’avvocato e nell’imputato ingiustamente accusato gli eroi positivi. Cultura del processo e cultura della società vanno di pari passo, la soluzione del problema passa proprio da qui.
Secondo lei al nostro giornalismo manca la cultura della presunzione di innocenza o è solo una questione di vendite e di dare da mangiare ad un pubblico affamato di mostri?
Vedo due problemi. Il primo è la dipendenza affettiva dei giornalisti dagli inquirenti che sono le loro fonti privilegiate. Questa dipendenza distorce inevitabilmente la cronaca giudiziaria sulle tesi d’accusa. Il secondo è la naturale tendenza ad assecondare i gusti del pubblico che propendono per le già citate sofferenze dell’imputato. Manca certamente la cultura della presunzione d’innocenza, ma, ancor prima, manca la cultura del processo di parti dove le tesi d’accusa pesano quanto quelle della difesa, manca la cultura del dubbio sulle tesi di parte e dell’affidamento rivolto esclusivamente alla decisione del giudice della cognizione.
Secondo lei i giudici si fanno influenzare dal processo mediatico?
La risposta affermativa viene dagli studi di psicologia. Mi ha colpito moltissimo leggere i risultati di indagini condotte negli Stati Uniti dove certamente il giudice è popolare e non professionale. Ma non va dimenticato che anche da noi la Corte d’assise è in composizione mista e che i giudici, soprattutto quelli più giovani, vivono immersi nei social e nella comunicazione online. Per non parlare del peso politico del processo mediatico, del condizionamento che l’aspettativa di giustizia vendicativa può avere sul giudice. Sarebbe utopistico e forse anche sbagliato pensare a un giudice avulso dalla società. Tuttavia, un conto è il blando condizionamento che inevitabilmente deriva dall’opinione pubblica, altro sarebbe un giudice populista che volesse soddisfare le pulsioni punitive che pervadono la società, ma tendenzialmente escluderei questa seconda ipotesi.
Per migliorare la situazione cosa occorrerebbe fare?
Ho già avuto modo di proporre alcune modifiche normative: la responsabilità delle società editrici ex d.lgs. 231 del 2001 per la pubblicazione arbitraria degli atti di indagine, l’aggiornamento delle fattispecie incriminatrici, il trasferimento di indagini e processi sulla violazione dei segreti in un diverso distretto sul modello dell’articolo 11 cpp, ma la risoluzione del problema passa da una rivoluzione culturale che sarà certamente aiutata dalla separazione delle carriere. Quando avremo finalmente introiettato la cultura del processo di parti, che si svolge in condizioni di parità fra accusa e difesa sotto l’egida della presunzione d’innocenza, verrà naturale considerare indagini e imputazioni per quello che sono, nient’altro che ipotesi in attesa di verifica giudiziale.