L’Aula del Senato ha approvato il ddl n. 806 recante modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali, che introduce nel codice di procedura penale l’articolo 254 ter. Ora la norma passa alla Camera. Ne parliamo con Oliviero Mazza, Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano- Bicocca.

In generale cosa pensa di questa riforma?

Mi sembra un atto doveroso, considerato l’attuale vuoto di tutela del domicilio digitale. Uno smartphone contiene la proiezione di tutta la nostra vita, dalle relazioni private fino a quelle professionali, e non può essere acquisito, come avviene ora, per una libera iniziativa degli inquirenti. Mi convince, dunque, la scelta di sottoporre il sequestro del device all’autorizzazione del giudice, soluzione del resto già adottata per interventi molto meno invasivi, come l’acquisizione dei tabulati. Meno convincente, invece, è il rinvio a un generico criterio di proporzione che non assicura un intervento realmente selettivo e mirato. Manca del tutto una disciplina tassativa delle modalità di intervento, ossia di esplorazione e selezione dei materiali all’interno del device, di custodia degli stessi, di accesso limitato alle memorie informatiche. Come ha ben detto la Cassazione, se cerco un libro non posso sequestrare l’intera biblioteca che lo contiene, ma devo fare in modo di apprendere solo il libro di mio interesse. Temo, quindi, che l’indefinita proporzionalità del sequestro consentirà, nei fatti, un’acquisizione generalizzata delle memorie informatiche a fini puramente esplorativi. Del resto, il presupposto della necessità per la prosecuzione delle indagini sarà poco più che una clausola di stile e finirà per giustificare la pesca a strascico nei device, senza che il vago concetto di proporzione possa realmente contenere la bulimia conoscitiva degli inquirenti.

Il senatore di FdI Rastrelli, relatore del provvedimento ha detto che è «una norma di civiltà»: «Attraverso un semplice sequestro qualsiasi ufficio di procura può accedere in termini esplorativi indiscriminati ad una mole di informazioni riservate e vitali ai danni di milioni di cittadini e questo in un ordinamento di diritto evoluto non è pensabile». Concorda?

Come ho detto è solo un timido primo passo o meglio la presa di coscienza di un problema che, però, non viene risolto. Necessità e proporzione sono concetti vaghi che nella prassi si presteranno a facili elusioni dettate dal superiore interesse conoscitivo. Ci vogliono argini più robusti a tutela del domicilio digitale e della vita privata.

Dall’altra parte il senatore del Pd Verini durante la discussione generale ha sottolineato: «L'idea che il pubblico ministero nella sua attività investigativa venga dipinto come una figura oscura fuori controllo, che si impossessa dei dati e non vigila sulla loro divulgazione, per me è malata». Che pensa?

Risponderei che fino ad oggi l’accesso indiscriminato ai dati è stato addirittura consentito alla polizia giudiziaria. L’unica vera patologia è, come detto, la pesca a strascico finora condotta dagli inquirenti nei nostri smartphone, tipica di uno Stato di polizia.

Infine il senatore del M5S Scarpinato ha dichiarato: «Il ddl all'esame di quest'aula prevede che i materiali sequestrati non possano essere utilizzati per reati diversi da quelli per i quali sono stati autorizzati i sequestri, tranne che per i delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, tra i quali ovviamente non rientrano la corruzione e altri reati dei colletti bianchi». Condivide oppure no?

Una limitazione sul modello delle intercettazioni mi sembra doverosa, non sono però un sostenitore dei binari differenziati in funzione della tipologia di reato. Si tratta di norme manifesto che vorrebbero dimostrare una indebita strumentalizzazione del processo nella lotta al crimine.

Secondo lei dal punto di vista procedurale la macchina giudiziaria si complica oppure no per tutti gli attori in gioco?

Le regole di garanzia sono ontologicamente dei limiti all’autorità procedente, ma del resto questa è la natura della procedura penale, porre limiti allo Stato nel rapporto asimmetrico con il cittadino. Non complica, ma garantisce maggiormente, anche se in modo ancora insufficiente.

In generale, secondo lei questo governo e questo Parlamento stanno lavorando bene per bilanciare, in chiave garantista, i rapporti tra difesa e pubblica accusa?

Difficile dare una risposta. Occorre scindere, anzitutto, le intenzioni dai fatti. Sulle prime si manifesta un sano spirito garantista, sui secondi molto meno. La disciplina dei sequestri informatici ne è la riprova, ma potrei citare anche l’ambizioso progetto di riportare il codice di rito ai principi del processo accusatorio che si scontra con resistenze culturali e politiche all’interno della stessa Commissione ministeriale composta perlopiù da magistrati. Ci vorrebbe più coraggio politico nell’affermare i principi di una democrazia liberale. Tornando all’esempio dei device, è evidente che oggi la maggior parte delle nostre comunicazioni siano scritte e asincrone, ossia per comunicare preferiamo la scrittura, mail, chat e simili. È semplicemente ipocrita distinguere ancora fra comunicazioni sincrone ed orali, garantite dalla disciplina delle intercettazioni, e comunicazioni asincrone e scritte, esposte alla ben più facile intrusione mediante sequestri informatici. Bisognerebbe adeguare il concetto di comunicazione alla realtà sociale e tecnologica e riportare tutte le forme di intrusione nelle nostre relazioni sociali e nella vita privata alla disciplina ben più garantista delle intercettazioni. Salvo poi interrogarsi sull’effettiva capacità del giudice di arginare il pubblico ministero. Avremo mai un giudice, sul modello anglosassone, convinto garante dei diritti fondamentali degli individui a fronte della pretesa conoscitiva del pubblico ministero? Non vorrei sembrare banale, ma il discorso inevitabilmente ritorna alla madre di tutte le riforme, la separazione delle carriere, o meglio degli ordinamenti, che sarà il vero banco di prova dell’attuale maggioranza.