Barbacetto sul Fatto firma un pezzo dal titolo «Ruby, il cavillo fu respinto da 32 giudici: "Giusto sentire le Olgettine come testi"». Recalcati su Repubblica, sempre sullo stesso tema: “Il non rispetto delle regole, come hanno ritenuto i giudici, non può rimuovere il senso della Legge e la verità che esso comporta. Pagare dei testimoni per dire il falso può anche essere un comportamento assolto per un vizio di procedura ma resta un chiaro comportamento "fuorilegge"”. Torniamo a parlarne con Valerio Spigarelli, già presidente dell’Ucpi, che ci aveva già spiegato in una precedente intervista perché non siamo in presenza di un “cavillo”.

Avvocato che pensa dell’articolo di Barbacetto?

Per prima cosa noto che l’argomento sul numero dei giudici che decidono in un modo rispetto ad altri che fanno il contrario è stato usato in passato, in merito a decisioni opposte, dai “tifosi” di Berlusconi. In realtà è un non senso in ambito giudiziario: i giudici in Cassazione sono cinque e a volte annullano decisioni su cui sono stati concordi molti altri loro colleghi. In realtà ci troviamo dinanzi ad una serie di norme, non a caso su cui si è lungamente discusso, in cui la discrezionalità era ed è amplissima.

Cioè?

La legge prevede che il pm iscriva “immediatamente” ogni notizia di reato che gli perviene ma, fino a poco tempo, lasciava una discrezionalità amplissima ed incontrollata rispetto alla iscrizione della persona nei confronti della quale si indagava. Il che permetteva molti abusi. Per questo oggi l’iscrizione deve avvenire non appena risultino “indizi” a carico di qualcuno, e soprattutto, si permette ai giudici di sindacare tempi e modalità di iscrizione, cosa che prima non si poteva fare. E siamo arrivati a farlo anche perché abbiamo constatato che la giurisprudenza era molto benevola nei confronti di questi atteggiamenti del pm. Che non avvenivano per caso, ma per poter interrogare una persona, in ipotesi indagabile, senza le garanzie di legge. Un format investigativo assai diffuso: si convocava gente per farla parlare, sapendo che prima o poi sarebbe stata iscritta nel registro delle notizie di reati ma intanto la si spremeva per avere informazioni senza garanzie.

Ci faccia un esempio.

Ce ne sarebbero a iosa. Dalle indagini sugli incidenti sul lavoro, o sulla sanità, a quelle per corruzione, accadeva – e accade – spesso. Quindi, quando parliamo della vicenda Berlusconi, non parliamo di un incidente che riguarda una interpretazione di 3 giudici contro 30 ma di una questione su cui si registrano abusi del processo. Dopo la Cartabia dovrebbe andare meglio, anche se si poteva fare di più.

Qui però parliamo dei giudici.

Ecco perché nella precedente intervista ho fatto riferimento alla terzietà del giudice e alla necessità della separazione delle carriere. Alludevo a quella giurisprudenza e a quegli atteggiamenti che, come in questo specifico caso, nell’ansia di salvare il prodotto delle investigazioni forzano l’interpretazione delle norme. Se si trova un “giudice a Berlino” il problema non si pone; si pone però rispetto all’atteggiamento della giurisprudenza in generale. Quello di cui stiamo parlando è esattamente l’epitome di una questione di carattere più generale che riguarda lo squilibrio della giurisdizione a favore della pretesa punitiva dello Stato che va corretta.

A proposito di regole, che ne pensa di quello che ha scritto Recalcati?

Quel commento fa una distinzione tra la giustizia “formale” e quella “sostanziale” che per un giurista è blasfema. Le regole sono il frutto di esperienze millenarie che servono a mettere a punto dei percorsi – i processi – che hanno il fine di arrivare a decisioni giuste. Cioè ad evitare gli errori giudiziari. Qualcuno sostiene che il codice accusatorio si accontenta della “verità processuale” vista come un minus rispetto a quella “sostanziale”, ma è una banalità. Le regole non servono ad arrivare alla verità assoluta – a quella ci pensa il Padreterno se esiste – ma ad una verità umana che eviti quanto più possibile di mandare in galera un innocente. Sembrano regole molto formali solo a quelli che non ne conoscono la storia. Ad esempio: se un pentito fa una dichiarazione contro qualcuno le sue parole da sole non bastano; mentre se c’è un testimone che fa lo stesso la sua sola parola è sufficiente. Qualcuno potrebbe dire che si tratti di una regola “formale” ma l’esperienza umana e giuridica ci ha insegnato che se qualcuno ha un interesse particolare in un processo - come ottenere dei benefici - le sue parole pesano meno rispetto a quelle di chi è disinteressato. Abbiamo elaborato la regola che nessuno può essere obbligato ad accusare sé stesso – quella di cui stiamo discutendo da giorni – perché abbiamo constatato che, nell’esperienza plurisecolare della giustizia, se non ci sono delle regole a difesa di chi viene interrogato questo porta a forzature per farlo confessare. E ciò vale anche per il contraddittorio, e ce n'è voluto per farlo capire a tutti, in primis alla giurisdizione italiana. Dal 1992 al 2000 abbiamo irrogato centinaia di anni di galera e molti ergastoli applicando la regola secondo la quale quello che un teste aveva detto alla polizia, o al pm, era sufficiente – una cosa che Barbacetto e il suo giornale ancora rimpiangono – e non era necessario dirlo in tribunale, sotto gli occhi del giudice e davanti al difensore. Dopo di che abbiamo modificato la Costituzione, per cui una prova è tale solo se si forma all’interno nel contraddittorio tra le parti. Ma non l’abbiamo fatto “solo” per tutelare il diritto di difesa o applicare una regola della Cedu preesistente. No, l’abbiamo fatto perché l’esperienza ci ha insegnato che il contraddittorio è uno strumento epistemico migliore per arrivare alla “verità”. Peraltro, le regole sono anche un bene in sé stesse perché, come scrisse Massimo Nobili, “il metodo con cui si indaga deve costituire un valore in sé perché, purificando il materiale della decisione, restringe il campo dell’arbitrio del giudice”. Infine, la distinzione tra le “regole” e la “legge universale” ricorda l’invettiva di quel giacobino che disse “invocate le forme perché non avete principi” ma, alla fine, alcuni di quelli che la pensavano così gli tagliarono la testa.