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GIOVANNI FALCONE
Nicola Gratteri ci ha fatto un regalo. Nell'ennesimo tentativo di arruolare Giovanni Falcone nella battaglia contro la separazione delle carriere, colto in fallo per l’ennesima volta da Il Dubbio, il procuratore di Napoli ha tirato fuori un intervento che merita di essere letto o ascoltato su Radio Radicale per intero (qui l'audio integrale). Parola per parola. Virgola per virgola. Perché quello che Falcone disse l'8 maggio 1992 all'Istituto Gonzaga dei Gesuiti di Palermo è molto, ma molto diverso da quello che vorrebbero fargli dire per la seconda volta.
Era un venerdì. Quindici giorni prima della strage di Capaci. Falcone aveva accettato di parlare ai ragazzi del Gonzaga sui rapporti tra magistratura e potere politico. Era previsto un secondo incontro, quello conclusivo del corso, per il 25 maggio. Non ci arrivò mai. Due giorni prima, il 23 maggio, la mafia lo fece saltare in aria a Capaci. Quel secondo appuntamento rimase segnato nel calendario dei Gesuiti come un fantasma. Restarono solo le parole dell'8 maggio. Un testamento intellettuale che merita di essere riscoperto.
I dogmi da scalfire
Per capire cosa disse davvero Falcone quel giorno, bisogna capire dove eravamo. Maggio 1992: Tangentopoli esplode e si discute furiosamente del ruolo della magistratura. C'è chi la difende a oltranza, chi la attacca frontalmente, chi propone riforme drastiche. Falcone apre così, con una lucidità disarmante: “Parlare di rapporti tra politica e magistratura in maniera serena, senza emozionalità e senza riferimento a vicende che tutti quanti stiamo vivendo, o che comunque abbiamo sotto gli occhi in questo momento, è praticamente impossibile”.
Impossibile. Ma ci prova lo stesso. E lo fa partendo da un articolo del Giornale di Montanelli firmato da Salvatore Scarpino. Un pezzo pessimista: tra il malaffare dei partiti e i cittadini è rimasta solo la magistratura come filtro. Ma che rischia di trasformarsi in supplenza politica. Da una parte pm che “giocano alla politica”, dall'altra politici che vorrebbero “irreggimentare i pubblici ministeri per impedire loro di arrestare gli assessori sgraffignoni”. Falcone è chiarissimo, e sottolinea con forza che “prima abbiamo assistito ad un periodo di attacco frontale contro la magistratura, che ha avuto il suo punto più elevato nel referendum sulla responsabilità civile”, ma – e qui è il suo focus – “adesso, con una velocità degna di miglior causa, siamo alla difesa ad oltranza dell'indipendenza dei giudici. Dobbiamo invece vedere innanzitutto ed esattamente di che cosa stiamo parlando perché altrimenti facciamo quel solito ragionamento per slogan che non ci fa fare un solo passo avanti”. Giovanni Falcone non si tira indietro: bisogna ragionare, non semplificare. Bisogna andare a fondo, non rifugiarsi negli slogan.
Ed è qui che tira fuori il professor Gianfranco Miglio. L'ideologo della Lega. Quello che aveva appena pubblicato “Come cambiare. Le mie riforme”. Falcone gli dedica uno spazio enorme. Lo cita, lo analizza, lo prende sul serio. Non lo liquida. Lo affronta. E alcune sue argomentazioni le sposa. Perché? Perché quelle idee, dice Falcone, “per l'autorevolezza di chi le propugna meritano di essere attentamente meditate”.
Cosa voleva Miglio? Tre cose precise: Primo: Un Csm composto solo da magistrati, senza componenti laici. Con competenze solo sulla carriera dei giudici. Addio alla componente politica. Secondo: ordinamento del pubblico ministero “nettamente distinto” da quello dei giudici. Ogni ufficio organizzato gerarchicamente. Organi superiori che possono avocare gli affari da quelli inferiori. Carriera propria, separata da quella dei magistrati giudicanti. Reclutamento per concorso, ma nomine e promozioni decise dal Procuratore della Repubblica, vertice dell'ordinamento del pm. Terzo, quella atroce: pene dure, scontate fino in fondo, niente più “concezione permissiva e perdonista” dell'articolo 27 della Costituzione. In sintesi: Miglio voleva la separazione delle carriere, un pm gerarchizzato, ma con un sistema punitivo spietato.
E come risponde Falcone? Primo punto: L'autonomia e l'indipendenza della magistratura “sono valori da valutare storicamente”. Non sono dogmi assoluti. Sono “valori che hanno una loro razionalità, una loro giustificazione, una loro logica, una loro spiegazione”. Non sono “un privilegio di casta riservato a una élite di funzionari dello Stato”, ma “valori, oltre che princìpi costituzionali, che servono per l'efficienza della magistratura”. Secondo punto: “Il pubblico ministero è sì un organo giudiziario, ma, non essendo titolare della potestà di giudicare, neppure può dirsi giudice in senso tecnico”.
Cosa conclude da questa premessa? Ecco la frase successiva: “Quali che possano essere nel concreto le soluzioni da adottare, un punto mi sembra fondamentale: il pm deve avere un tipo di regolamentazione differente da quella del giudice, non necessariamente separata”. Falcone sta dicendo: il pm è diverso dal giudice, va regolato diversamente, ma le soluzioni possono essere molteplici. Non c'è una sola strada, e non è un dogma nemmeno la separazione delle carriere.
E continua: “E ciò non per assoggettarlo all'esecutivo, come si afferma, ma al contrario per esaltarne l'indipendenza e l'autonomia. Fra gerarchia e indipendenza c'è tutta una serie di figure intermedie che possono fare in modo che l'indipendenza sia finalizzata al raggiungimento degli scopi per cui il pubblico ministero è stato creato”. Traduzione: il magistrato non deve essere uno strumento dell'esecutivo, ma nemmeno un potere incontrollato.
L'accusa che gli era rimasta dentro
Falcone racconta un episodio che lo aveva ferito: “Mi ricordo (sono problemi che riguardano la mia persona, ma li richiamo soltanto perché possono essere utili per spiegare il concetto) che venni ’accusato’ di voler il pm dipendente dall'esecutivo quando in un convegno dissi che occuparsi dell'obbligatorietà dell'azione penale è sì un fatto importante, ma non è essenziale”. Quell'accusa lo aveva segnato. L'accusa di tradimento, di voler svendere l'indipendenza. E ora, davanti ai ragazzi del Gonzaga, cerca di spiegare. Di far capire che la complessità non può essere ridotta a slogan. “Perché l'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ha una valenza differente a seconda del tipo di processo penale in cui ci si muove”. E qui cita l'articolo 97 della Costituzione: il buon andamento della pubblica amministrazione.
Ed eccoci al passaggio decisivo. Quello che Gratteri ha citato non rendendosi conto di averlo frainteso di nuovo: “Indipendenza ed autonomia, se per un verso devono essere strettamente legate all'efficienza dell'azione della magistratura, dall'altro non significano affatto separatezza dalle altre funzioni dello Stato. Io credo che prima o poi si riconoscerà che non è possibile una meccanicistica separatezza perché ciò determina grossi problemi di funzionamento e di raccordo”. Di quale separatezza sta parlando Falcone? Di quella tra giudice e pm? No. Sta parlando della separatezza tra magistratura e altri poteri dello Stato. Sta dicendo che una magistratura chiusa in se stessa come corpo separato crea più problemi di quanti ne risolva. Non a caso, quando qualche studente gli porrà delle domande, Falcone citerà la proposta di Calamandrei, il quale poneva il problema di regolamentare il raccordo con gli altri poteri dello Stato.
Ascoltandolo si capisce la statura di Falcone. Per lui non esistevano dogmi, ma equilibri. Chissà cosa avrebbe detto nel secondo incontro, quello conclusivo. Non lo sapremo mai. Ma possiamo ascoltare quello che disse il primo giorno. E capire che tradirlo, oggi, significa citarlo a pezzi per fargli dire l'opposto di quello che pensava. Ma forse, come ha ben spiegato Luciano Capone su Il Foglio, è arrivata l'ora di lasciare in pace sia lui che Borsellino dalla battaglia referendaria. Sappiamo cosa pensavano all'epoca (non certamente come le argomentazioni del fronte del no), ma non potremo mai sapere cosa ne avrebbero pensato oggi.


