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Da tempo Enrico Costa si batte perché le valutazioni su giudici e pm siano legate alla statistica. E non gli si potrebbe dar torto. Anche se la sua proposta di introdurre un “fascicolo del magistrato” negli iter che il Csm segue per promuovere o bocciare (cosa rarissima) le toghe è stato in gran parte depotenziato, con l’attuazione della riforma Cartabia.
Ma ora l’ex viceministro della Giustizia e oggi deputato di Forza Italia offre una base quantitativa al dossier decisivo della politica giudiziaria, la separazione delle carriere. Lo fa attraverso un’interrogazione parlamentare rivolta al guardasigilli Carlo Nordio per conoscere i dati sulle intercettazioni autorizzate dai gip.
Nella replica a Costa, il ministero di via Arenula rende noto che le richieste di autorizzare le “captazioni telefoniche o ambientali” avanzate dalle Procure sono accolte, dai giudici per le indagini preliminari, nel 94% dei casi. Il tasso raggiunge il 95% quando si tratta di “intercettazioni disposte con urgenza”. Le sezioni gip dei Tribunali hanno detto sì addirittura al 99% delle istanze di prorogare gli ascolti. Numeri disarmanti. Che non a caso ricordano quel 99% di giudici promossi dall’attuale Csm nelle valutazioni di professionalità.
I dati ottenuti da Costa, soprattutto, individuano il nodo cruciale delle distorsioni alla base della riforma Nordio. E sì, perché non c’è passaggio che certifichi in modo plastico, più del via libera quasi indiscriminato dei gip alle intercettazioni, la scarsa autonomia di una parte dei magistrati giudicanti dai colleghi requirenti. Non c’è altro focus sul processo penale che attesti così platealmente l’urgenza di “affrancare” il giudice dalla “contiguità professionale” col pm, anche con una modifica rivoluzionaria come quella che, a inizio primavera, sarà sottoposta a voto popolare.
È così per un motivo semplice e sottile nello stesso tempo: esiste un legame stretto fra le intercettazioni e quel controllo dei pm sulle carriere dei giudici che la riforma punta a stroncare. Quel nesso ha una definizione ben nota: si chiama processo mediatico. È attraverso l’enfasi mediatica assicurata, innanzitutto dalle intercettazioni, alle loro indagini infatti, che i pubblici ministeri guadagnano una visibilità pubblica incomparabilmente superiore al “peso” dei giudici.
Ed è anche grazie a quel protagonismo mediatico che gli stessi pubblici ministeri vantano una sostanziale egemonia nell’Anm e nelle sue correnti. Ma proprio in virtù di tale egemonia i pm continuerebbero a condizionare le nomine ai vertici degli uffici giudicanti, se la riforma non neutralizzasse l’influenza delle correnti attraverso il sorteggio dei togati. Il nesso potrà spezzarsi solo nel momento in cui i componenti magistrati dell’eventuale futuro “Csm dei giudici” decideranno in libertà, in un plenum senza pm, forti di una nomina ottenuta con l’estrazione a sorte, non condizionata dunque da quelle correnti Anm in cui le Procure vantano una chiara supremazia “politica”.
Nel momento in cui cadesse quel meccanismo, è probabile che se Enrico Costa interrogasse ancora il ministero per conoscere il tasso di accoglimento, da parte dei gip, delle richieste di autorizzare gli “ascolti” presentate dei pm, i dati sarebbero un po’ meno “bulgari” del 94% emerso grazie all’interrogazione dei giorni scorsi. Il che limiterebbe l’incidenza mediatica delle indagini, incidenza che, in particolare nelle inchieste sui presunti casi di malaffare politico, si realizza soprattutto con lo scandalismo delle intercettazioni anticipate a mezzo stampa. Ed è anche grazie a questa specifica rivoluzione eventualmente prodotta dalla separazione delle carriere, che la delegittimazione della politica attuata, per via giudiziaria, a partire da Mani pulite si attenuerebbe almeno. Con chiaro beneficio per la salute della democrazia.
Costa, nel tweet su “X” con cui ha dato notizia dell’interrogazione sugli ascolti, scrive: «Il tasso “bulgaro” di accoglimento dimostra che il gip non fa il suo lavoro e si limita a timbrare le richieste della Procura. Uno scandaloso appiattimento, che incide sensibilmente sulla spesa pubblica, visto che il costo annuo delle intercettazioni ha superato i 270 milioni di euro. A questo punto non resta che ribattezzare il gip “giudice inutile passacarte”». Certo, la disfunzione è anche in termini di costi. Che però sono, appunto, innanzitutto costi democratici.
A proposito di Mani pulite, è difficile dimenticare come l’inchiesta del ’92-’93 vide come attore non protagonista proprio un gip, Italo Ghitti, che, come ricordato nei mesi scorsi dal magistrato Guido Salvini, tendeva ad accogliere praticamente tutte le richieste di misure cautelari avanzate dal mitico pool. Insomma, il rapporto anomalo fra pubblici ministeri e giudici per le indagini preliminari distorce l’impatto del processo penale sull’equilibrio fra i poteri dai tempi in cui al vertice della Procura di Milano c’era Francesco Savero Borrelli. E questo dimostra quanto vera sia l’affermazione del presidente Ucpi Francesco Petrelli secondo cui la vera domanda, sulla separazione delle carriere, è com’è possibile che sia arrivata solo ora.
Oggi alla Camera, si è presentato alla stampa un altro comitato per il Sì. Ne fa parte la senatrice di FI Stefania Craxi, figlia del leader che più di ogni altro da Mani pulite fu massacrato. Con lei, alcuni testimoni di quel Psi che questi 33 anni hanno ridotto a sbiadito ricordo, ossia Fabrizio Cicchitto, Claudio Signorile e Alfredo Venturini. Dire che questo comitato referendario dimostri come la separazione delle carriere serva anche a chiudere un assurdo squilibrio fra i poteri iniziato nel 1992, potrebbe andare oltre le intenzioni dei promotori. Ma un po’ vero forse lo è.


