Eva Kaili e Francesco Giorgi passano al contrattacco. A tre anni dagli arresti del Qatargate, la maxi operazione per una presunta corruzione nel cuore dell’Europa – ferma al palo sin dal primo giorno – l’ex vicepresidente del Parlamento europeo e suo marito, ex assistente parlamentare, si sono presentati davanti al procuratore di Milano Marcello Viola e al pm Eugenio Fusco per denunciare Pier Antonio Panzeri. Quest’ultimo, ex europarlamentare e oggi grande pentito dell’inchiesta, è colui che ha tirato in ballo la politica greca e l’ex assistente come membri della presunta associazione a delinquere.

L’accusa rivolta a Panzeri da Kaili e Giorgi, assistiti dall’avvocato Domenico Aiello, è quella di calunnia: a carico dei due non era emerso alcun elemento indiziante – come dimostrano i verbali dei servizi segreti, che hanno praticamente condotto l’inchiesta e poi trasmesso tutto alla procura – ma sono finiti in carcere sulla base esclusiva delle sue dichiarazioni. Il modo in cui si arrivò ai nomi di Kaili e Giorgi è stato denunciato dettagliatamente dagli stessi legali di Panzeri, Laurent Kennes e Marc Uyttendaele.

Il giorno dell’arresto, interrogato senza avvocato, Panzeri nega l’esistenza di qualcosa di simile al Qatargate. «Ho svolto un lavoro informale per un Paese che si chiama Qatar – spiega – quando ho posto fine alla mia attività di parlamentare e sono diventato un cittadino ordinario senza più obblighi istituzionali. Il Qatar mi ha chiesto di svolgere un’attività di consulenza e io ho accettato». Ma tutto in nero, questi i patti. «Io, probabilmente facendo un errore, ho accettato», ammette. Il compenso era di 17mila euro lordi al mese, che in tre anni fanno 612mila euro, più o meno quanto i servizi hanno trovato in casa sua. «Ammetto di non aver pagato le tasse», aggiunge, ma «non ho corrotto nessuno».

Alle 17.42 gli inquirenti si danno il cambio e gli consentono di chiamare la figlia. Sanno già che non potrà rispondere, perché è stata arrestata insieme alla madre, ma non lo informano. Panzeri lascia un messaggio in segreteria e continua a raccontare. Solo al termine dell’interrogatorio, alle 20.35, gli viene rivelato che la moglie e la figlia sono in carcere. Ed è a quel punto che crolla. Alle 12.15 del giorno successivo, gli viene proposto un accordo: la libertà per moglie e figlia e una condanna a sei mesi in cambio di una confessione. L’alternativa è pesante: 15 anni di carcere. E per evitarli deve fare due nomi. Panzeri accetta e chiama in causa i due eurodeputati belgi Marc Tarabella e Marie Arena. Chiede la presenza di un avvocato, ma gli viene risposto che è troppo tardi: avrà diritto all’assistenza legale solo davanti al giudice istruttore.

Panzeri, ormai sconvolto, si autoincrimina di corruzione «e parla delle due persone di cui gli sono stati dati i nomi – scrivono i suoi avvocati –. Dal secondo paragrafo, apparentemente d’iniziativa, cita il nome di Marc Tarabella, che avrebbe ricevuto più volte somme in contanti, tra i 120 e i 14mila euro». Poi smorza il riferimento a Arena. Una volta davanti al giudice istruttore, viene nominato un avvocato d’ufficio, praticamente fresco di laurea. Un investigatore, secondo i legali, «insiste per avere altri nomi» per suggellare l’accordo. Che alla fine viene chiuso.

Davanti al giudice Michel Claise – che abbandonerà le indagini per via dei rapporti d’affari tra suo figlio e quello di Arena – gli viene ricordato ancora una volta che moglie e figlia sono in carcere. Panzeri chiarisce: «Arena è una mia amica, non voglio denunciarla. Non c’entra nulla». Diventa così un collaboratore di giustizia, e l’accordo viene portato a termine, inguaiando – tra gli altri – proprio Kaili e Giorgi. Ora, i due hanno deciso di fare chiarezza, anche alla luce delle dichiarazioni di Ceferino Alvarez Rodriguez, l’investigatore che, parlando con Giorgi (che lo registrò), demolì la credibilità di Panzeri, sostenendo che la procura non crede ad una sola delle sue parole.

L’inchiesta milanese – sulla quale tutte le parti mantengono il massimo riserbo – potrebbe finalmente chiarire il ruolo di Panzeri, che proprio a Milano è già stato considerato inattendibile. La gip Angela Minerva, infatti, nell’aprile del 2024 ha archiviato l’indagine a carico dell’ex segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, tirata in ballo dallo stesso Panzeri con l’ipotesi di corruzione internazionale. Camusso era stata iscritta nel registro degli indagati dopo che la procura federale belga aveva trasmesso in Italia alcuni verbali di Panzeri, secondo cui nel 2018 il Qatar avrebbe voluto finanziare la sua campagna per la presidenza del sindacato mondiale dei lavoratori. Secondo Panzeri, i qatarioti intendevano “comprare” il consenso dei sindacati per ammorbidire le critiche sulle condizioni dei lavoratori nel Paese. Da qui il tentativo di avvicinamento da parte del dignitario del Qatar, Ali bin Samikh Al Marri, all’epoca presidente della Commissione per i diritti umani.

Di tutto ciò, però, non ci sono prove: per la giudice – come già avevano rilevato i pm – «l’atto genetico del procedimento» con «le affermazioni in merito a non meglio precisate “manovre” che sarebbero state effettuate da Panzeri per appoggiare Susanna Camusso» non era supportato da alcun riferimento concreto o specifico ad atti d’indagine. L’integrazione di atti ricevuti dagli inquirenti belgi è risultata «assolutamente generica e non suscettibile di approfondimenti», dal momento che le persone informate sui fatti «non hanno riferito nulla di utile per contestualizzare quanto genericamente affermato».

Ora l’Italia potrebbe finalmente rilanciare l’inchiesta più mediatica, ma meno solida, della storia europea. E forse non come vorrebbero gli inquirenti belgi.