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LA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GIORGIA MELONI, CARLO NORDIO MINISTRO GIUSTIZIA
Tre elementi portano a pensare che la partita sulla separazione delle carriere sta mutando profondamente nelle regole del gioco. Primo: la rissa quasi sfiorata tra parlamentari due giorni fa alla Camera dei deputati nel momento in cui è arrivato il terzo via libera alla riforma costituzionale. Secondo: una discesa in campo di più ministri – vedasi Nello Musumeci e Paolo Zangrillo – nel criticare la magistratura. Terzo: un aumento delle dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni contro i «giudici politicizzati» e a favore di una «riforma storica attesa da anni». Tutto questo pare essere il segnale inequivocabile che l’attenzione stia salendo in maniera esponenziale, con una mobilitazione talvolta scomposta. E mancano ancora almeno sei mesi al referendum.
L’auspicio dei due fronti che si contenderanno la vittoria è sempre stato pubblicamente quello di portare avanti una campagna politica e comunicativa basata esclusivamente sui contenuti della modifica all’ordinamento giudiziario. Dopo la consultazione confermativa, ciascuno vorrebbe poter dire di aver convinto gli italiani esclusivamente in merito a una questione rilevante per la parità processuale. Tuttavia, adesso sembra essere chiaro a tutti che così non potrà avvenire.
Le regole di ingaggio saranno meno stringenti. In palio non c’è solo un “Sì” o un “No” alla separazione delle carriere ma anche il futuro elettorale dell’attuale compagine governativa e la reputazione della magistratura. Una sconfitta per la premier significherebbe arrivare azzoppata al voto per il rinnovo del Parlamento. Una sconfitta delle toghe equivarrebbe a un loro profondo ridimensionamento, secondo molti. Al momento, il risultato finale sul referendum non appare scontato, benché i favorevoli alla riforma partano in vantaggio.
Per questo all’interno della maggioranza, in virtù anche di sondaggi non sempre decifrabili, sta crescendo una certa preoccupazione: «La vittoria non è scontata, non dimentichiamo come è andata a finire con Renzi», mugugna qualche parlamentare. E non sarebbe una frase pronunciata per semplice scaramanzia. Dunque è arrivato il momento di una mobilitazione generale e capillare. Proprio oggi il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato che a fine settembre, alla festa di Forza Italia a Telese Terme (Benevento), «annunceremo formalmente la nascita dei comitati per il ‘Sì’ in vista del referendum». L’obiettivo è martellare il più presto possibile i cittadini per portarli non solo a votare ma a votare a favore delle carriere separate.
Ma prima va creata, tra gli elettori, una certa consapevolezza. E se per chi mastica questioni di giustizia appare scontata la rilevanza del contenuto della riforma, per la maggior parte degli italiani non è così. Per questo, allora, una autorevole fonte parlamentare di maggioranza non estranea al dossier giustizia ci spiega che all’interno dell’Esecutivo e dei partiti di centrodestra si rafforza l’idea di emendare ai buoni propositi, espressi in primis dallo stesso guardasigilli Carlo Nordio, che ha più volte ribadito come il voto non dovrà trasformarsi in un indice di gradimento delle toghe.
Agli elettori non a digiuno della materia si dovrà sicuramente ribadire che la riforma è necessaria per garantire l’equidistanza delle parti processuali rispetto al giudice e che «l’arbitro non può avere la stessa maglietta di una delle due squadre in campo». Inoltre bisognerà fare una sorta di fact checking puntuale rispetto agli argomenti usati dal fronte opposto. Su questo, ad esempio, è intervenuto a “Radio anch’io” il presidente del Cnf Francesco Greco: «Il rischio sollevato dall’Anm è particolarmente preoccupante perché proviene dagli stessi magistrati: temono che il loro stesso corpo inquirente possa trasformarsi in una sorta di 'super poliziotto', con poteri eccessivi e potenzialmente fuori controllo. Un grande cortocircuito».
Ma nel prontuario elaborato dal governo non si rinuncerà a descrivere la magistratura come una «casta», che difende «lo status quo, quello del correntismo e dello scandalo Palamara mai superato». L’obiettivo è ribaltare la narrazione degli ultimi trent’anni, liberare dallo stigma della “casta” la politica e associarlo piuttosto alla «magistratura lottizzata».
Lo scenario peggiore per l’Anm, ma che servirà ai promotori della riforma per scongiurare il rischio che una fetta dell’elettorato di destra-centro diserti le urne perché comunque solidale alla funzione originaria della magistratura, soprattutto di quella antimafia. Non a caso Nicola Gratteri potrebbe essere, se già non lo è, il migliore sponsor contro il “Sì” alla modifica costituzionale.
Per portare avanti questa battaglia anche a livello locale, il governo avrà bisogno della mobilitazione più ampia possibile, e degli stessi avvocati. Non solo dei penalisti, che con l’Ucpi già nel 2017 raccolsero le firme di oltre 72 mila italiani per la prima proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, ma di tutti gli avvocati.
Tra i quali però c’è, da un lato, chi è favorevole nel merito alla riforma ma potrebbe non esercitare il diritto di voto o mettere addirittura la croce sul “No” solo perché la riforma è promossa dalla destra e portata avanti in nome di Silvio Berlusconi. Non a caso Walter Verini, in un’ intervista alla Stampa, ha evocato chiaramente questo tipo di argomentazione, scagliandosi contro una riforma che porta il sigillo del fondatore di FI e «della P2 di Licio Gelli. Entrambi erano contro la separazione dei poteri e volevano sottomettere la magistratura all’esecutivo». E poi c’è una parte dell’avvocatura, in particolare quella civilista, che non essendo immediatamente “coinvolta” dalla riforma potrebbe non avere tutto questo interesse a impegnarsi nella campagna in vista del referendum e, di conseguenza, nel giorno del voto.
Insomma, le incognite sono tante, le strategie ancora arrangiate, ma sicuramente si preannuncia un dibattito alquanto velenoso da parte di tutti i soggetti coinvolti.