La riforma della giustizia diventa ufficialmente la bandiera del centrodestra e la vetrina della sua unità. Con il voto di ieri alla Camera in terza lettura, la separazione delle carriere è ormai pronta per arrivare davanti agli italiani. Non essendo stato raggiunto il quorum dei due terzi dei componenti in seconda deliberazione (come prevede l'articolo 138 della Costituzione), sarà il referendum a decidere, trasformando una vittoria parlamentare in un pronunciamento popolare.

Formalmente manca ancora un ultimo voto al Senato, Giorgia Meloni e l’intera maggioranza sono già con la testa rivolta al referendum. Non si tratta di un semplice adempimento costituzionale: sarà una prova di forza politica, una sorta di test generale per le elezioni del 2027.

«Con l'approvazione in terza lettura – ha scritto la premier – portiamo avanti il percorso della riforma della giustizia. Continueremo a lavorare per dare all'Italia un sistema sempre più efficiente e trasparente. Avanti con determinazione per consegnare alla Nazione una riforma attesa da anni». Un messaggio che proietta la sfida referendaria oltre il merito tecnico, facendone il vero banco di prova per misurare il consenso del governo in vista della fase finale della legislatura e delle prossime elezioni politiche.

La posta in gioco è chiara: se su politica estera, autonomia differenziata e fisco la coalizione sta conoscendo momenti di tensione, sulla giustizia il centrodestra appare più unito che mai. La separazione delle carriere diventa il collante ideale, il tema identitario su cui Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia parlano con una sola voce.

Ecco perché la campagna per il “sì” sarà molto più di una consultazione popolare: sarà il palcoscenico su cui Meloni, Salvini e Tajani potranno presentarsi compatti, offrendo un’immagine di maggioranza coesa, pronta a chiedere la riconferma nel 2027.

«Festeggiamo la riforma, Berlusconi sarà felice. È una grande vittoria politica. Ora siamo pronti a lavorare ai comitati per il sì», ha detto Antonio Tajani ad Ancona, evocando persino il referendum del 1985 sulla scala mobile e definendolo «un risultato lusinghiero». Un paragone che trasforma il voto in un rito di identità collettiva: come allora, l’obiettivo è vincere e consolidare il blocco sociale di riferimento.

La regia è già in movimento. «Siamo a un passo dal traguardo – ha detto il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto – con questa riforma il cittadino torna al centro del sistema giudiziario, con tutte le garanzie tutelate da un giudice finalmente terzo. Ora siamo pronti a sottoporre il progetto al giudizio degli italiani». Una dichiarazione che lascia intendere che il referendum non sarà subìto, ma cavalcato.

Per la Lega, Matteo Salvini ha parlato di «provvedimento nell’interesse di tutti i cittadini, una battaglia storica del Carroccio. Promessa mantenuta: avanti tutta!». Un assist alla premier che conferma l’allineamento interno sul tema giustizia. Persino Carlo Nordio, pur mantenendo il tono istituzionale, ha lasciato trasparire l’importanza del momento: “Non deve essere vissuta come una sconfitta della magistratura – ha spiegato – ma mi pare che un certo entusiasmo sia normale, visto il risultato schiacciante che sarà confermato al Senato e, ne sono certo, anche durante il referendum».

La campagna elettorale per il “sì” sarà dunque una vetrina per mostrare coesione, in un momento in cui la maggioranza non può permettersi di apparire divisa. Il referendum diventa un catalizzatore: chi andrà a votare si esprimerà anche sul governo. Per questo la posta in gioco è altissima: trasformare una riforma costituzionale in un’investitura politica.

Non è un rischio calcolato: è una scelta strategica. Se il centrodestra vincerà, potrà presentarsi alle Politiche del 2027 con la forza di una maggioranza che ha mantenuto le promesse e che gode del sostegno popolare su uno dei temi più sentiti dall’elettorato. Se invece il referendum dovesse fallire, il colpo sarebbe anche simbolico, perché acuirebbe l’impressione di una coalizione tutt'altro che granitica.

Per ora, però, la narrazione è chiara: giustizia come battaglia di civiltà, referendum come “prova generale” delle urne del 2027, e centrodestra che si ricompatta dopo mesi di frizioni. Un’occasione che Meloni non intende sprecare.