«Rimozione subito!»: basta un click. Persino per cacciare un giudice che ha scritto una sentenza sgradita all’opinione pubblica, come chiedono le quasi 50mila persone che hanno sottoscritto una petizione online contro il magistrato Paolo Gallo. L’appello è spuntato su Change.org il 15 settembre e in appena quattro giorni ha raccolto una quantità di firme che basterebbero a presentare una proposta di legge di iniziativa popolare. Ma che di certo non sono sufficienti a rovesciare l’intero sistema giustizia per piegarlo al furore della folla indignata.

Motivo dello scandalo – ormai è noto – sono le motivazioni con le quali il Tribunale di Torino ha assolto un uomo accusato di maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie, picchiata e colpita in pieno volto. L’imputato è stato condannato a un anno e mezzo per lesioni, dal momento che – a parere dei giudici – mancava la condotta abituale per configurare i maltrattamenti. Il tutto sulla base di una corretta valutazione delle prove, secondo alcuni osservatori, a cui pure non sfuggono alcuni dei passaggi più controversi della sentenza.

A suscitare le polemiche, infatti, è stato soprattutto il linguaggio con cui si motiva la decisione, laddove si considera “umanamente comprensibile” l’amarezza dell’imputato di fronte alla dissoluzione di un matrimonio durato quasi vent’anni. Oppure quando il giudice, ricordando che l’imputato rimproverò alla moglie di non avergli comunicato i suoi sentimenti di persona, commenta: “Come dargli torto”.

Frasi inaccettabili che tradiscono un’impostazione stereotipata per giustificare la violenza, secondo “l’accusa”. Che in questo caso unisce il tribunale social alla sollevazione bipartisan che ha smosso la politica, con un clamore tale da trasformare una sacrosanta riflessione sull’appropriatezza del linguaggio giudiziario e sul fenomeno della vittimizzazione secondaria in una specie di format mediatico, nel quale basta premere un pulsante per mettere alla porta un magistrato.

«È necessario che la magistratura italiana dimostri elogiabile integrità e un impegno verso la protezione delle vittime di violenza. Firma questa petizione per mostrare il tuo sostegno a un sistema giudiziario più giusto e compassionevole. Insieme possiamo fare la differenza», recita la petizione. E sembra superfluo dirlo, ma le cose non stanno proprio così. Si può ritenere che una sentenza integri un illecito disciplinare, e in quel caso si può presentare un esposto alla Procura generale, che mette in moto la macchina. Anche se, a spulciare le regole – ovvero l’articolo 2 del decreto legislativo 109/2006 - sembra difficile individuare un illecito che ipotizzi una “caduta” linguistica rivelatrice di stereotipi culturali sessisti.

Il sistema ha comunque i suoi strumenti “correttivi”. E una sentenza si può impugnare, come ha già fatto la procura di Torino. Lo ha annunciato lo stesso Cesare Parodi, presidente dell’Anm e procuratore aggiunto di Torino, che si sofferma proprio sul linguaggio utilizzato. «Fermo restando il merito della decisione, l’abbiamo impugnata per il principio che traspare ossia che la violenza possa essere uno strumento di interlocuzione familiare», spiega il leader del sindacato delle toghe. «Chiederemo alla Corte d’Appello, se al caso la Cassazione, se la Procura Generale la riterrà – aggiunge Parodi -, se questo genere di argomentazione, che a me pare non in linea a quei principi espressi anche dalla Corte Europea, proprio sui criteri di valutazione, sia o meno condivisibile».

Ma le anomalie non finiscono qui. Perché contro la sentenza di Torino si è mossa anche la commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, che ha chiesto di audire il giudice estensore del provvedimento e di acquisire gli atti del procedimento. Determinando in questo modo «un rischioso corto circuito costituzionale lesivo dei principi che regolano il nostro ordinamento democratico fondato, come noto, sulla separazione dei poteri dello Stato», denuncia l’Unione delle Camere penali. Che con una nota diffusa nei giorni scorsi ha duramente stigmatizzato la gogna subita dal giudice, dal quale si pretendono sentenze conformi al sentimento popolare in barba alle prerogative di autonomia e indipendenza dei magistrati.