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TRIBUNALE DI MILANO CORRIDOIO 3.10 TRIBUNALE
Il comunicato diffuso dalla Giunta dell’Anm di Torino, teoricamente nato per difendere i giudici finiti nel mirino dopo la controversa sentenza sui maltrattamenti, si è trasformato in un boomerang. Più che protezione, appare come una bacchettata.
Il testo, che in apparenza suona come una manifestazione di solidarietà, prende infatti - nemmeno troppo tra le righe - le distanze dal collegio di primo grado parlando di «considerazioni superflue e ultronee rispetto al profilo decisorio». Una frase che, in piena tempesta mediatica, suona come una censura interna. E non basta: l’auspicio che le giurisdizioni superiori possano rimediare a un «fallace esercizio della giurisdizione», denuncia il deputato di Forza Italia Enrico Costa, sembra un messaggio diretto alla Corte d’appello, composta da colleghi iscritti alla stessa associazione. In pratica: la sentenza è sbagliata, punto.
Si può e si deve discutere, tra i cultori del diritto, di come quel linguaggio giudiziario rischi di scivolare in stereotipi e vittimizzazione secondaria. Ma non era compito dell’Anm sottolinearlo. Bastava ribadire un principio semplice: i giudici si difendono dagli attacchi esterni, gli eventuali errori si correggono con gli strumenti previsti dall’ordinamento. Trasformare una difesa in un atto d’accusa significa indebolire la magistratura proprio quando dovrebbe fare quadrato.
Costa, su X, parla di «un capolavoro di ipocrisia e di condizionamento della Corte d’appello». Per il deputato azzurro, infatti, il comunicato «non tutela il collegio, lo isola» e lascia intendere quale debba essere l’esito dell’impugnazione. Un paradosso e un gesto forse inopportuno, dato che - evidenzia ancora - il presidente nazionale dell’Anm è anche procuratore aggiunto della procura appellante.
Alle critiche ha replicato proprio Cesare Parodi, presidente del sindacato delle toghe, rispondendo nel Comitato direttivo centrale a una domanda della nostra Valentina Stella: «La convocazione in sede parlamentare non è qualcosa di vietato – ha detto, riferendosi all’ipotesi di audire in Commissione femminicidio il giudice estensore della sentenza – ma sarebbe inquietante se non fosse per chiarire, bensì per condizionare. C’è una grossa differenza: se è per capire, è un conto; se è per indirizzare le scelte, non lo condivido. Se il giudice ha sbagliato c’è l’appello, c’è la Cassazione: utilizziamo gli strumenti previsti dal sistema».
Parole nette e condivisibili, almeno in parte, perché cosa debba chiarire un magistrato in sede parlamentare, relativamente ad una propria decisione, non è dato sapere. Appare inopportuno, un’invasione di campo. Ma la vicenda ha ormai rotto ogni argine. E come se non bastasse, nella giustizia italiana che qualcuno immagina gestita dal televoto, è comparsa anche una petizione su Change.org per chiedere la rimozione del giudice Paolo Gallo. Ha già raccolto oltre 8.700 firme. A prescindere dal merito della sentenza, l’iniziativa rischia di trasformare l’indipendenza della magistratura in un concorso popolare a colpi di clic, in un periodo in cui il tema è caldissimo e lo scontro tra toghe e politica infiammatissimo.
Comunicati, polemiche, raccolte firme: un turbine che amplifica il clamore e lascia sullo sfondo l’essenziale. La giustizia non si fa con gli slogan né con le petizioni online. Si fa nei tribunali, con le impugnazioni, le regole processuali, i gradi di giudizio. Tutto il resto è rumore che mina la fiducia nelle istituzioni.