Lo scorso 7 maggio, mentre Giovanni Toti era già in manette, svegliato nel cuore della notte mentre si trovava in albergo a San Remo, la gran parte dei giornali, ancora inconsapevole della notizia-choc, era militarmente occupata dalle dichiarazioni di alti magistrati contro le riforme della giustizia.

Quel che è successo da quel giorno in avanti, con le riflessioni del difensore del governatore Stefano Savi al Dubbio e infine le parole dell’ex pm di Milano Tonino Di Pietro sulla “pesca a strascico” e altre anomalie di questa inchiesta, mostrano non solo la necessità ma anche l’urgenza di queste riforme. Quella sul sistema delle intercettazioni prima di tutto, quella che certi giornalisti e certi pm, uniti nella lotta, definiscono “legge bavaglio” solo perché cerca di evitare quello che sta succedendo, con il mercato nero dei verbali, le notizie vere e quelle false mescolate, e lo scorticamento del corpo vivo dell’indagato.

Ma il 7 maggio, prima che la sorte offrisse ai nemici delle riforme questo bel regalo ligure, l’attenzione era concentrata sulla separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici. E il faro era puntato sul congresso, a Palermo, del sindacato delle toghe. Dove ci sarà, in quella fatidica giornata, un’atmosfera di totale chiusura da parte dei magistrati nei confronti del ministro Nordio, che pure è andato nella tana del lupo stringendo tra le mani, più che un ramoscello, un intero albero di ulivo e proposte di mediazione.

Dall’altra parte neppure uno spiraglio da parte di chi sa e dimostra ogni giorno di avere nelle mani le vere leve del potere. Perché ogni legislatore sa di essere un potenziale Giovanni Toti, e questo è il motivo vero per cui in Italia le riforme sulla giustizia sono impossibili. Così si accettano anche le ingiurie o le assurdità. Ma soprattutto una forte presenza sui giornali, come quella del 7 maggio su Repubblica, Stampa, Fatto, di critiche verso il ministro, da parte di toghe “pesanti” come quella del procuratore Nicola Gratteri, o di ex come Edmondo Bruti Liberati e Giancarlo Caselli.

I quali evocano, per mettere il peperoncino sulla pietanza, non solo i progetti di Silvio Berlusconi ma addirittura quelli di Licio Gelli e la loggia P2. Che è un modo demagogico ma anche allarmistico per depotenziare qualcosa di molto serio come una riforma di rango costituzionale che ha la finalità alta di valorizzare l’imparzialità la terzietà del giudice, e ridurla a livello di barzelletta o di allarme democratico. L’aiutino all’inchiesta di Genova da parte di certa carta stampata o di certe emittenti private, oltre che delle reti pubbliche, è dovuto a un altro dato di realtà.

Perché se ogni legislatore teme di poter diventare un Giovanni Toti, ogni imprenditore proprietario di quotidiani o di emittenti tv potrebbe diventare un Aldo Spinelli, il finanziatore di tante campagne elettorali di tutti i partiti, come lui stesso ha dichiarato dagli arresti domiciliari genovesi. La sua prima deposizione è già oggetto di volantinaggio tra i cronisti e gli inviati a Genova. Vogliono fargli dire a tutti i costi che i 40mila euro versati al Comitato di Toti in occasione di elezioni, non erano elargizioni ma “mazzette”.

Si sgola invano l’avvocato di Spinelli, Andrea Vernazza, insultato, nel corso della trasmissione di David Parenzo “L’aria che tira”, da un cronista sciocco che si crede furbo e che gli chiede che cosa si debba fare «per avere 40.000 euro da Spinelli». Il legale spiega che i tempi e le date dell’elargizione rispetto per esempio alla proroga della concessione del Terminal Rinfuse sono diversi e lontani tra loro. Se avesse partecipato alla trasmissione lo stesso Spinelli, definito “tirchio come una capra” ma anche sagace, avrebbe detto al cronista sciocco che si crede furbo che a lui i soldi non li avrebbe dati perché nessuno lo avrebbe mai candidato neanche alle elezioni di condominio.

Ma non si possono negare le gravi responsabilità del legislatore, in tema di giustizia. Del Parlamento, dove pure la maggioranza che ha presentato nel programma elettorale le riforme della giustizia è molto solida. Ma anche e soprattutto del Governo. C’era proprio necessità di presentare un’altra proposta di separazione delle carriere, visto che quelle di diversi partiti e quella dell’unione delle Camere penali che aveva anche raccolto le firme sono già in commissione giustizia e a uno stadio piuttosto avanzato? E che fine ha fatto la riforma delle intercettazioni, insieme all’abolizione dell’abuso d’ufficio, la modifica del traffico di influenze e l’abolizione, per quanto ridotta, del ricorso del pm? Meno riforme si approvano, più timore mostra la politica nei confronti di chi le leggi dovrebbe solo applicarle ma pretende anche di interferire nella loro stesura, più spazi di prateria si lascerà a interventi pieni di anomalie come quello cui assistiamo da dieci giorni nel “caso Toti”.

Questa inchiesta finirà in nulla, probabilmente, per la gran parte degli indagati. E sarà la riprova, dopo gli analoghi casi dell’Umbria, Calabria, Basilicata, Lombardia, Toscana, Emilia, Abruzzo, del fatto che nulla è cambiato, in tutti questi anni. Se una giudice, in sintonia con una delle parti processuali, quella rappresentata da un pm che fa la sua stessa carriera, può arrestare il governatore di una regione perché potrebbe, in vista di elezioni europee in cui non è candidato, ripetere un reato di cui non c’è prova che sia stato mai commesso. E si consente a giornali e talk televisivi di fare incursioni nelle migliaia di carte del pm, comprese quelle già accantonate dal giudice per fare titoloni destinati a squagliarsi come neve al sole quando il prossimo trafiletto annuncerà i proscioglimenti. Ma mancano almeno dieci giorni all’interrogatorio di Giovanni Toti, e le carte da spulciare sono ancora tante.