«Ieri, con la decisione definitiva della magistratura, si è chiuso il percorso giudiziario legato alla morte di mia figlia Giulia. Non esiste una giustizia capace di restituire ciò che è stato tolto, ma esiste la consapevolezza che la verità è stata riconosciuta e che le responsabilità sono state pienamente accertate».

Con queste parole Gino Cecchettin, padre di Giulia, ha commentato in una nota la rinuncia della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Venezia all’impugnazione contro la condanna all’ergastolo di Filippo Turetta, il giovane reo confesso dell’omicidio.

«Fermarsi è un segno di pace interiore»

Nel suo messaggio, Cecchettin ha scelto un tono di profonda lucidità e compostezza, segnando una svolta umana e simbolica nel lungo cammino della giustizia e del dolore. «Verrebbe naturale pensare di continuare a pretendere giustizia, di cercare ulteriori riconoscimenti della crudeltà o dello stalking. Ma continuare a combattere quando la guerra è finita è, in fondo, un atto sterile. La consapevolezza che è il momento di fermarsi, invece, è un segno di pace interiore e di maturità, un passo che andrebbe compiuto più spesso».

Un pensiero che racchiude la fatica di un padre e la volontà di riconciliare la sofferenza con la verità giudiziaria, in un percorso che diventa collettivo.

«La giustizia accerta i fatti, il dolore spetta a noi»

Cecchettin ha poi aggiunto parole che suonano come un monito civile: «La giustizia ha il compito di accertare i fatti, non di placare il dolore. Quel compito spetta a noi: a chi resta, a chi decide di trasformare la sofferenza in consapevolezza e la memoria in responsabilità».