La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di mandato di arresto europeo: non è necessario che l’autorità estera alleghi o descriva i gravi indizi di colpevolezza, essendo sufficiente che indichi con chiarezza i reati contestati e le circostanze essenziali. È quanto stabilito dalla Sesta sezione penale con una sentenza depositata il 26 settembre 2025, che ha confermato la consegna di un cittadino italiano richiesta dall’autorità giudiziaria tedesca. Scrivono i giudici di legittimità: «La valutazione della gravità indiziaria è integralmente rimessa all’autorità richiedente la consegna, non occorrendo alcun ulteriore controllo, per quanto incidentale, da parte dell’autorità richiesta». Una presa di posizione netta, che fa leva sulle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 10 del 2021 alla legge n. 69 del 2005: con tale riforma è stato eliminato il riferimento ai “gravi indizi di colpevolezza” tra i presupposti per disporre la consegna.

Il caso riguardava un cittadino italiano chiamato in causa per presunta partecipazione a un’associazione a delinquere con base in Germania, finalizzata a evadere imposte, eludere contributi previdenziali e favorire l’ingresso irregolare di lavoratori stranieri. Secondo l’autorità tedesca, l’uomo avrebbe prestato la propria identità per la creazione di società di comodo e avrebbe agevolato l’impiego di immigrati privi di permesso di soggiorno. La difesa aveva contestato la genericità delle accuse e la sproporzione della richiesta di consegna, sostenendo che l’audizione dell’imputato avrebbe potuto avvenire con modalità diverse, senza ricorrere a una misura così invasiva. Inoltre, aveva segnalato l’impossibilità di accedere a tutte le testimonianze raccolte in Germania.

Ma la Cassazione ha respinto punto per punto le obiezioni. In primo luogo ha ricordato che la Corte di appello di Firenze aveva già individuato chiaramente i reati contestati, soddisfacendo così il requisito della “doppia punibilità” (ossia la corrispondenza tra fattispecie penali previste in entrambi gli ordinamenti) e rendendo obbligatoria la consegna. In secondo luogo ha sottolineato che il mandato non era stato emesso per un semplice atto investigativo, ma per sottoporre il soggetto a un vero e proprio processo penale in Germania.

Quanto ai motivi aggiunti presentati in memoria dalla difesa, la Suprema Corte ha osservato che nel procedimento sul mandato europeo non è prevista la possibilità di introdurre questioni nuove oltre quelle indicate nel ricorso iniziale. Le memorie possono solo illustrare o approfondire i motivi già proposti, non estenderne l’oggetto. Sul punto, gli ermellini scrivono: «Non si prevede in alcun modo la possibilità di depositare “motivi nuovi”, né è indicato un eventuale termine per tale adempimento. Quanto detto consente di affermare che la difesa è abilitata esclusivamente al deposito di memorie, con le quali non può introdurre questioni ulteriori e diverse rispetto a quelle proposte con il ricorso introduttivo». Un passaggio evidenziato qualche riga più avanti: «Anche nel procedimento ordinario, vige il principio generale della necessaria connessione tra i motivi originariamente dedotti nel ricorso principale e quelli nuovi». In definitiva, il ricorso è stato dichiarato infondato e il ricorrente è stato condannato non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche a versare tremila euro alla Cassa delle ammende.

In buona sostanza, l’Italia, quando riceve un mandato di arresto europeo, non deve sindacare sulla solidità delle prove raccolte all’estero. Spetta al Paese che emette il mandato verificare la fondatezza delle accuse. All’autorità italiana resta solo il compito di controllare che vi sia chiarezza nell’indicazione dei reati e rispetto delle condizioni di legge.