PHOTO
Michele Ciminnisi non doveva morire. O meglio, non era lui l'obiettivo. Era il 29 settembre 1981, un martedì qualunque a San Giovanni Gemini, provincia di Agrigento. Michele se ne stava appoggiato al muro esterno del bar Reina, forse a godersi l’aria, forse in attesa di qualcuno. Non poteva sapere che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. Dentro quel bar c’era “Gigino” Pizzuto, un boss di peso, uno che sedeva nella commissione regionale di Cosa Nostra ma che aveva il difetto di appartenere alla fazione sbagliata, quella di Bontate.
I “corleonesi” di Riina e Provenzano avevano deciso che doveva morire. E per farlo non mandarono un sicario silenzioso nell’ombra, ma un commando di guerra. Due killer arrivarono sparando. Michele cadde subito, fulminato all’esterno del locale, colpevole solo di trovarsi sulla traiettoria della violenza. I killer entrarono, uccisero Pizzuto, ma i proiettili vaganti si presero anche la vita di Vincenzo Romano, un altro innocente seduto a un tavolo da gioco.
Quella di San Giovanni Gemini non fu un’esecuzione. Fu una strage. Un atto pensato per terrorizzare, per dire a tutti che nessuno era al sicuro, che il potere dei Corleonesi non guardava in faccia a chi giocava a carte o beveva un caffè. Oggi, più di quarant’anni dopo, quella dinamica di morte è diventata il centro di una battaglia surreale tra i figli di Michele, in particolare Giuseppe Ciminnisi coordinatore nazionale dei familiari delle vittime di mafia dell’associazione “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, e il ministero dell’Interno. Una guerra fatta di carte bollate, sentenze ignorate e bonifici che sanno di beffa.
La questione è sottile ma sostanziale. Per anni, Michele Ciminnisi è stato considerato una “vittima innocente della criminalità organizzata”. Un'etichetta corretta, certo, ma incompleta. La legge 206 del 2004 ha introdotto benefici specifici per le vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. La tesi sostenuta dai legali di Ciminnisi, gli avvocati Salvatore Ferrara e Danilo Giracello, è che la mattanza del 1981 rientri perfettamente in questa categoria: un’azione criminosa in luogo pubblico, rivolta contro soggetti indeterminati, parte di una strategia stragista volta a diffondere il panico. Significa riconoscere che la mafia, in quegli anni, agiva come un'organizzazione terroristica.
LA BATTAGLIA LEGALE
Giuseppe Ciminnisi ci ha creduto. Ha portato il ministero dell’Interno in tribunale, a Palermo, davanti alla Sezione Lavoro. E ha vinto. Il giudice Rosalba Musillami, con la sentenza numero 1066 pubblicata l’ 8 marzo 2024, ha scritto nero su bianco che Giuseppe ha ragione. Il Ministero, che nel processo non si è nemmeno costituito restando contumace, è stato condannato a riconoscere i benefici della legge 206/ 2004, togliendo quanto già erogato per la legge sulle vittime di mafia. Una vittoria piena. La sentenza dice: lo Stato deve pagare, lo Stato deve riconoscere lo status. Qui finisce la logica e inizia il labirinto burocratico italiano. Perché in un Paese normale, una sentenza esecutiva notificata alla Pubblica Amministrazione viene applicata. In Italia, invece, viene interpretata, o peggio, archiviata in un cassetto.
Dopo la notifica della sentenza a settembre 2024, il silenzio. O quasi. Dagli uffici della Prefettura di Agrigento parte una nota che sembra arrivare da un'altra epoca. I funzionari dell’Ufficio territoriale del governo scrivono che l’evento del 1981 è stato attribuito dai giudici penali dell’epoca “esclusivamente alla cosca mafiosa Cosa Nostra”, senza “alcuna connotazione terroristica”.
Per la Prefettura, il padre di Giuseppe è stato riconosciuto “vittima innocente della criminalità organizzata” e tanto basta. La nota si arrampica sugli specchi della giurisprudenza contabile, citando sentenze della Corte dei Conti per sostenere che non esiste un’equiparazione automatica tra le vittime di mafia e quelle del terrorismo e che “nessun ulteriore beneficio” può essere concesso. Il ragionamento dell'amministrazione è disarmante nella sua rigidità: si aggrappano alle vecchie sentenze della Corte d'Assise del 1981 e del 2012, ignorando totalmente il fatto nuovo, ovvero che un Tribunale della Repubblica, nel
2024, ha analizzato quei fatti alla luce delle nuove leggi e ha stabilito che sì, quello fu terrorismo mafioso. La Prefettura, di fatto, si sta sostituendo al giudice, decidendo che la sentenza 1066/ 2024 non va applicata perché loro non sono d'accordo.
Per capire che non si tratta di un incidente di percorso, ma di un vero e proprio “metodo” con cui lo Stato tratta queste vicende, bisogna allargare lo sguardo. Mentre Giuseppe combatteva la sua battaglia, tre donne – anch’esse familiari di vittime innocenti – affrontavano lo stesso muro di gomma.
La loro storia, recentemente definita in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa ( CGA) dell’ottobre 2025, è la prova che il sistema è rotto. Anche loro avevano una sentenza definitiva. Anche a loro il Ministero ha negato un diritto. La scusa? Non avevano “barrato la casella giusta” in un modulo incompleto fornito proprio dal Ministero. Il CGA ha dovuto scrivere parole di fuoco, parlando di “violazione sistematica dei diritti costituzionali” e accusando l'amministrazione di usare il formalismo burocratico per discriminare le vittime. I giudici hanno chiarito un concetto che dovrebbe essere ovvio: non si può costringere chi ha già vinto in tribunale a ricominciare daccapo per un cavillo.
IL MURO DI GOMMA
È in questo contesto di sistematica negazione che si inserisce il vero cortocircuito del caso Ciminnisi. Arriva il 19 novembre 2025. Il ministero dell’Interno, lo stesso che tramite la Prefettura nega i diritti a Ciminnisi e che nel caso delle tre donne usava i moduli sbagliati, dispone un bonifico. L’ordinativo secondario n. 5 sul capitolo 2937 del bilancio porta una causale chiara: “Pagamento della somma di € 4420.36 per spese di lite in favore ricorrente su Sent. n. 1066/ 24 Tribunale di Palermo”. Hanno pagato le spese processuali. Hanno versato i soldi per gli avvocati e per il contributo unificato. Con quel bonifico, il Ministero ammette due cose: primo, che la sentenza esiste ed è valida; secondo, che sanno di essere stati condannati.
Eppure, mentre i soldi per le spese legali partono, il provvedimento amministrativo che dovrebbe cambiare la vita di Giuseppe Ciminnisi e restituire la giusta etichetta storica alla morte di suo padre resta bloccato. È un paradosso schizofrenico. Lo Stato accetta di saldare il conto con la giustizia formale, ma rifiuta il debito morale e sostanziale verso la vittima.
Di fronte a questo muro di gomma, Giuseppe Ciminnisi non ha avuto scelta. È stato costretto a rivolgersi nuovamente al ministero dell’Interno presentando una ottemperanza. Un tentativo del cittadino contro l'inerzia della Pubblica Amministrazione. Gli avvocati Ferrara e Giracello chiedono al Ministero di eseguire la sentenza di Palermo. Di smetterla di citare vecchi dispositivi penali per eludere nuovi obblighi civili.
Nel ricorso si legge tutta la frustrazione di chi ha un titolo esecutivo in mano che vale meno della carta su cui è stampato. Si chiede la nomina di un “Commissario ad acta”, un funzionario che prenda il posto dell'amministrazione inadempiente e firmi i decreti che nessuno al Ministero vuole firmare. Si chiede, in sostanza, che lo Stato commissari sé stesso per poter funzionare. Ma nulla di fatto. La storia di Michele Ciminnisi, morto ammazzato mentre prendeva aria fuori da un bar, e dei suoi figli, costretti a inseguire la giustizia tra Palermo e Roma, racconta un’Italia dove le sentenze rischiano di restare vuoti simulacri. Riconoscere che quella strage fu terrorismo non è solo una questione di soldi. È una questione di verità storica e rispetto della legge. Significa ammettere che la mafia ha usato il terrore indiscriminato come arma politica e militare, colpendo cittadini inermi in luoghi pubblici per piegare lo Stato. La legge 206 del 2004 è nata per questo. Il Tribunale di Palermo lo ha capito e lo ha sancito. Il ministero dell’Interno si è limitato a pagare il bonifico per le spese legali. Ciminnisi aspetta ancora. Come lui, centinaia di altre famiglie.


