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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione torna a fare chiarezza su un tema delicato della cooperazione giudiziaria europea: il mandato di arresto europeo, cosiddetto Mae, e i casi in cui l’Italia può rifiutare la consegna di un condannato per far eseguire la pena sul proprio territorio. Con una recente sentenza, i giudici di legittimità hanno annullato la decisione con cui la Corte d’appello aveva scelto di non consegnare un cittadino condannato all’estero, disponendo invece l’esecuzione della pena in Italia. Una scelta che, secondo la Suprema Corte, non è conforme al diritto dell’Unione europea.
Il punto centrale riguarda l’articolo 4, punto 6, della decisione quadro 2002/ 584/ Gai, che consente allo Stato di esecuzione - in questo caso l’Italia - di rifiutare la consegna se la persona ricercata è cittadino o residente e se lo Stato si impegna a far scontare la pena sul proprio territorio.
Per anni la giurisprudenza italiana, secondo quanto viene descritto in sentenza, ha interpretato questa possibilità in maniera estensiva, ritenendo sufficiente avere a disposizione il provvedimento straniero al fine di procedere al riconoscimento e all’esecuzione interna.
Ma le indicazioni arrivate dalla Corte di giustizia dell’Unione europea hanno segnato un cambio di rotta, cui la Corte di Cassazione si è ora adeguata. I giudici di Lussemburgo hanno chiarito che il rifiuto della consegna presuppone un vero e proprio impegno da parte dello Stato membro di esecuzione ad eseguire la pena privativa della libertà, con la conseguenza che qualunque rifiuto deve essere preceduto dalla verifica della possibilità di eseguire realmente tale pena. Non basta quindi acquisire la sentenza.
Affinché ciò avvenga serve il consenso formale dello Stato che ha emesso la condanna, formulato attraverso la trasmissione di un apposito certificato previsto dalla decisione quadro 2008/ 909/ Gai. La Cassazione richiama espressamente questo principio, sottolineando che «la mera trasmissione della sentenza di condanna senza il certificato non costituisce un implicito consenso dello Stato di emissione all’esecuzione della pena». E aggiunge che «lo Stato di esecuzione non può dare alla sentenza straniera un’esecuzione parziale o diversa da quella concordata in via generale, trattandosi di una regola inderogabile posta a tutela del principio di sovranità dello Stato di condanna».
Ne deriva, spiega la Corte, che se lo Stato estero non fornisce il certificato o rifiuta espressamente il consenso, l’Italia non può trattenere il condannato e deve procedere alla consegna. «A fronte del rifiuto dello Stato di condanna di trasmettere i suddetti atti, al fine di evitare l’impunità della persona ricercata, un mandato d’arresto europeo deve essere eseguito», ribadiscono i giudici richiamando la giurisprudenza comunitaria. Ed infine, «onde evitare lo stallo della procedura, andrà comunque stabilito dalla corte di appello un congruo termine per la ricezione di quanto richiesto allo Stato di emissione».
Tale decisione è rilevante, in quanto precedenti giudizi avevano rifiutato la consegna, riconoscendo in via unilaterale la sentenza straniera e disponendone l’esecuzione in Italia. Una prassi che la Cassazione oggi considera non più sostenibile alla luce delle nuove regole interpretative.
Sarà quindi obbligo dei giudici italiani uniformarsi a tale orientamento, anche nei procedimenti in corso. Da qui la decisione di annullare la sentenza della Corte d’appello, che aveva negato la consegna senza aver prima attivato un dialogo con lo Stato estero. E ora, cosa succederà? I giudici territoriali dovranno richiedere formalmente il consenso dello Stato di condanna e la trasmissione del certificato previsto dalle regole europee.