Dopo i feroci attacchi seguiti all’invio degli atti al Tribunale dei Ministri, difficile, all’esito della lettura della richiesta di autorizzazione a procedere, attribuire al procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, l’intento di colpire per via giudiziaria il governo. Compare alle prime pagine del documento, infatti, la sua richiesta di archiviazione non solo della premier Giorgia Meloni – poi effettivamente archiviata –, ma anche, seppur in parte, per gli altri indagati. Eppure, è la stessa presidente del Consiglio a scegliere la strada dello scontro toghe-politica. E lo fa dal Tg5, rilanciando la polemica usando un argomento collaterale alla vicenda Almasri. «Io vedo un disegno politico intorno ad alcune decisioni della magistratura particolarmente quelle che riguardano i temi dell'immigrazione come se in qualche maniera ci volesse frenare la nostra opera di contrasto all'immigrazione illegale - ha affermato -. Ciononostante i flussi di immigrati illegali in Italia sono diminuiti del 60% e lavoriamo per fare ancora meglio». Dato che pare esagerato, stando ai report del Viminale. Poco importa: è un tiro al bersaglio. Ed è difficile non vedere un richiamo a due recenti vicende: la decisione dei giudici della Corte di Giustizia europea, che hanno stroncato il decreto Paesi sicuri, e la scelta della procura di Palermo di impugnare in Cassazione l’assoluzione di Matteo Salvini nel caso Open Arms.

«A me non sfugge – ha aggiunto – che la riforma della giustizia procede a passi spediti e ho messo in conto eventuali conseguenze». Le conseguenze, dunque, potrebbero essere anche queste, a leggere tra le righe: un’indagine su mezzo governo che pur senza sfogo giudiziario mette in difficoltà l’esecutivo, nel momento più delicato del suo percorso. 

Lo Voi, però, aveva proposto il proscioglimento per tutti dal peculato, e per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi anche dal reato di favoreggiamento. Di fronte ai dubbi sui tempi – martedì sera molti avevano criticato il ritardo nella trasmissione degli atti – Lo Voi ha chiarito di aver impiegato solo 24 ore, necessarie per leggere tutto e sistemare il fascicolo da mandare alla Camera. Un timing più che ragionevole.

È il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, a trascinarlo di nuovo nell’arena e a rilanciare il refrain più efficace degli ultimi 30 anni: «Non è vero che Lo Voi ha agito fuori tempo – ha dichiarato –. La sua azione è in perfetto sincronismo con la tradizione dell’uso politico della giustizia. Accuse infondate a politici del centrodestra per montare campagne politiche. È chiaro a tutti. Pertanto nessun ritardo. Ma una tempistica consueta e ben conosciuta». Niente da fare, dunque. Il procuratore è tornato ad essere il bersaglio numero uno, nell’ottica di una strategia comunicativa che mira a spostare l’attenzione sul tema principale: la politicizzazione della magistratura. Che Lo Voi – tradizionalmente non una toga rossa – ha sempre negato.

Sul suo setaccio del procuratore di Roma erano rimasti solo il sottosegretario Alfredo Mantovano e il ministro della Giustizia Nordio. Le giudici, però, lo hanno seguito solo su Meloni, attribuendo un preciso peso penale a scelte pure politiche che il governo aveva però rappresentato in maniera diversa al Parlamento, giustificandole come frutto di presunti cavilli che avrebbero impedito di dare seguito alla richiesta della Cpi. Si tratta di questioni che un eventuale processo avrebbe potuto chiarire – come avvenuto con Matteo Salvini nel caso Open Arms – ma che qui sono destinate a sfumare di fronte al prevedibile rifiuto dell’Aula di autorizzare il procedimento nei confronti di mezzo governo.

Rimane in sospeso il ruolo di Giusi Bartolozzi, capo di Gabinetto, la cui versione è stata definita dal Tribunale «inattendibile» e «mendace». Parole dure, che sembrano prefigurare una possibile trasmissione di atti alla procura ordinaria, per ora non confermata ma evocata da molti, forse anche per infastidire – riuscendoci – Nordio. Qualora finisse sotto indagine, il suo destino sarebbe diverso da quello dei politici, non essendo necessaria alcuna autorizzazione. E questo significherebbe mettere concretamente sotto accusa il braccio operativo del ministro, la funzionaria a lui più vicina e sicuramente quella di cui si fida di più.

Il leader di Italia viva, Matteo Renzi, ne approfitta subito per ribaltare lo slogan tanto caro alla maggioranza: altro che toghe rosse, il problema sarebbero le “toghe brune”. «Se Giorgia Meloni crede davvero nella separazione delle carriere – ha dichiarato su X – dovrebbe iniziare a separare le carriere dei politici da quelle dei magistrati. Sulla vicenda Almasri, i tre magistrati Mantovano, Nordio e Giusy Bartolozzi stanno trascinando il governo in uno scandalo senza precedenti. Non mi interessano i profili giudiziari: mi basta constatare che siamo governati da dilettanti allo sbaraglio. Meloni non tocca palla: fa la bella statuina, prepara i tweet e i post, viene bene in foto. Chi governa questo Paese sono magistrati, toghe brune, che usano i servizi segreti e le istituzioni come milizie private». E si è rammaricato, l’ex premier, che lo scenario del dibattito sia la Camera, non il Senato, dove avrebbe potuto incalzare il governo.

Ora sarà l’Aula a stabilire i contorni – letteralmente – del “politicamente corretto”. «La valutazione – aveva d’altronde dichiarato Bartolozzi al Tribunale dei Ministri – era prima di tutto politica». È proprio ciò che le opposizioni chiedono venga ammesso, invocando una spiegazione plausibile a fronte delle «bugie», affermano, degli esponenti coinvolti. Ma al di là del perimetro autorizzativo, la situazione espone il governo e la sua politica giudiziaria – protagonista assoluta della stagione – a due mesi di attacchi serrati, proprio mentre la riforma della separazione delle carriere avanza verso il referendum della prossima primavera.

Il primo atto della Giunta per le autorizzazioni presieduta da Devis Dori sarà la nomina di un relatore. Poi, nei primi giorni di settembre, inizieranno le sedute, durante le quali «inviteremo anche i due ministri e il sottosegretario a rendere chiarimenti», ha spiegato Dori. Entro la fine di settembre sarà pronta la relazione per l’Aula – basata su 1300 pagine di allegati – con tre voti distinti: palesi in Giunta, segreti in Aula, che si esprimerà definitivamente entro ottobre.

In questo lasso di tempo, Meloni e i suoi dovranno respingere il fuoco delle opposizioni. Che puntano non solo a chiedere conto dei rapporti con la Libia – «il governo italiano ha fatto patti con i trafficanti di esseri umani», dice Angelo Bonelli di Avs – ma anche a ingrossare la percentuale dei contrari alla separazione delle carriere, attraendo gli indecisi. La strategia della premier, per ora, è quella di rivendicare la responsabilità politica dell’azione dei suoi ministri, compattando il governo. «Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie - ha dichiarato sempre al Tg5 -, sono il capo del governo e non sono neanche, diciamocelo, un Conte qualsiasi che faceva finta di non sapere che cosa facesse il suo ministro degli Interni».

La replica del leader 5 Stelle non si è fatta attendere. «Non sono certo una Meloni qualsiasi. Lei è ricattabile?” – ha risposto con un video su Facebook –. Il governo ha mentito anche al Parlamento, fornendo 5, 6, 7 versioni diverse per quanto riguarda le ragioni che hanno portato a offrire un salvacondotto a chi è accusato di stupri di bambini e di crimini contro l'umanità. Non ci è ancora chiaro perché lo hanno fatto». Il piano è tutto politico. «L’archiviazione – tuona Nicola Fratoianni – non cancella le sue responsabilità politiche, al pari degli altri». La destra, però, è di tutt’altro avviso. A ribadirlo è ancora Gasparri: «Tutto finirà nel nulla, perché le accuse sono infondate. La giusta e sacrosanta azione del governo sarà salvaguardata». È una guerra tra toghe e politica. Ed è appena cominciata.