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«Sia i Ministri Nordio e Piantedosi, sia il sottosegretario Mantovano erano perfettamente consapevoli del contenuto delle richieste di cooperazione inviate dalla Cpi e, in particolare, del mandato di arresto spiccato nei confronti dell’Almasri. Non dando corso a tali richieste il primo, decretando il secondo la formale espulsione dcl ricercato con un provvedimento (...) viziato da palese irrazionalità e disponendo il terzo l'impiego di un volo Cai che ne ha assicurato l’immediato rientro in patria, hanno scientemente e volontariamente aiutato il predetto a sottrarsi alle ricerche e alle investigazioni della Cpi». Sono queste le parole con le quali, in 92 pagine, il Tribunale dei Ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro della Giustizia Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, ora depositata alla Camera.
La richiesta si inserisce nel meccanismo previsto dall’articolo 96 della Costituzione e dalla legge costituzionale del 1989: per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali, l’avvio del processo penale richiede un voto parlamentare. Il Tribunale dei Ministri rappresenta il primo filtro tecnico-giuridico; spetterà ora alla Camera valutare se concedere l’autorizzazione, una decisione che può basarsi anche su considerazioni di “preminente interesse pubblico”.
La Giunta per le autorizzazioni, che già oggi si metterà al lavoro sull’incarcamento, ha ora circa un mese di tempo per visionare gli atti e poi inviarli in Aula, dove si voterà dopo 30 giorni.
La decisione di rispedire Almasri in patria, secondo il Tribunale dei Ministri, non sarebbe stata presa in base alle giustificazioni fornite dal ministro della Giustizia Nordio e dal ministro dell’Interno Piantedosi davanti al Parlamento a febbraio, ma dettata dai timori di possibili ritorsioni libiche emersi fin dalla prima riunione a Palazzo Chigi, tenutasi il 19 gennaio, poche ore dopo l’arresto di Osama Najeem Almasri a Torino. In quel confronto in videoconferenza, con la partecipazione di Mantovano, Piantedosi, il ministro degli Esteri Tajani, vari capi di gabinetto e responsabili della sicurezza, il direttore dell’Aise, Giovanni Caravelli, segnalò l’esistenza di un concreto rischio di ritorsioni da parte delle autorità di Tripoli. Caravelli precisò di non avere informazioni su «specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani in Libia, ma c’era molta agitazione ed indicatori di possibili manifestazioni o possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani».
Secondo le tre giudici, Nordio sarebbe stato «pienamente a conoscenza non solo dei doveri incombenti su di lui ma anche della normativa in tema di libertà personale, per cui la decisione della Corte d’Appello avrebbe dovuto aver luogo necessariamente entro il termine di quarantotto ore dalla trasmissione degli atti relativi all’arresto da parte della polizia giudiziaria». E sarebbe stato, dunque, perfettamente consapevole della situazione e del rischio che Almasri potesse tornare in libertà nonostante le gravi accuse formulate dalla Corte penale internazionale.
A impedirgli di agire non sarebbe stata una carenza di tempo a disposizione, né cavilli legali: la sua, per le giudici, sarebbe stata «una scelta cosciente e volontaria». A riprova di ciò, secondo il Tribunale dei Ministri, la scelta di bloccare ogni comunicazione con la Corte penale, direttiva che, in un primo momento, sarebbe stata impartita anche con lo scopo, scrivono le giudici, di evitare «l’arrivo degli atti agli uffici tecnici del Dag», che si erano già messi al lavoro «preoccupati della necessità di adozione di provvedimenti urgenti da parte del ministro».
In ogni caso, «è un dato di fatto che, nella specie, il ministro della Giustizia aveva avuto il tempo di interloquire con gli altri vertici istituzionali e avrebbe avuto, anche all'esito di tali riunioni, il tempo per provvedere a dar corso alla richiesta di arresto provvisorio e di sequestro, ove avesse voluto». E «contrariamente a quanto sostenuto dal ministro Nordio, sia in Parlamento che nella memoria, la legge n. 237/2012, pur conferendo a lui il compito di curare in via esclusiva i rapporti dell’Italia con la Cpi e di dare impulso alla procedura, non gli attribuisce alcun potere discrezionale», ma, anzi, «lo investe della funzione di garante del buon esito della stessa».
Le giudici hanno esaminato anche l’ipotesi che i ministri abbiano agito per evitare possibili ritorsioni contro cittadini italiani o interessi nazionali in Libia, ma nei documenti non c’è traccia di questa motivazione: la tesi dello “stato di necessità” compare solo in una memoria difensiva del 30 luglio.
Dalle testimonianze raccolte, secondo la ricostruzione formulata nella richiesta, emerge anche che Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, fu informata dell’arresto di Almasri la mattina del 19 gennaio 2025 e invitò i colleghi alla massima riservatezza, chiedendo di usare Signal per le comunicazioni. Il dirigente Luigi Birritteri - che poi si dimise dal ruolo di capo dipartimento per gli Affari di Giustizia - riferì inoltre di aver predisposto autonomamente una bozza di atto per il ministro, ma di non aver mai saputo perché Nordio decise di non firmarla né di inviarla al procuratore generale.
Uno dei punti più delicati della richiesta riguarda il Falcon di Stato col quale Almasri è stato riaccompagnato in Libia, circostanza che è valsa a Mantovano e Piantedosi anche l’accusa di Peculato. Secondo le giudici, le «ragioni di sicurezza nazionale» invocate dai membri dell’esecutivo avrebbero rappresentato «una mera copertura formale del fatto che l'aereo sia stato utilizzato e, con ciò, distratto e il carburante necessario impiegato per una finalità illecita, vale a dire per compiere il reato di favoreggiamento», dato l’utilizzo di un bene pubblico utilizzato da terzi - in questo caso Almasri - «per finalità personali connesse alla commissione di un illecito penale».
Inizialmente, nell’inchiesta era coinvolta anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: la sua posizione è stata però archiviata per mancanza di elementi sufficienti, restringendo il procedimento agli altri tre membri del governo.
Infine, il Tribunale sottolinea che l’Italia, in quanto Stato parte dello Statuto di Roma, aveva l’obbligo generale di cooperare con la Corte Penale Internazionale e non poteva invocare motivazioni di opportunità politica per sottrarsi a tale obbligo: le condotte dei tre esponenti del governo sono quindi considerate penalmente rilevanti come reati ministeriali.