Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, hanno depositato in Giunta per le Autorizzazioni a Montecitorio la loro memoria difensiva sul rilascio del generale libico Almasri, vicenda per la quale il Tribunale dei ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere.

Si tratta di circa 23 pagine, come confermato dal presidente della Giunta, Devis Dori, che ha sottolineato il carattere di segretezza del documento, non rendibile pubblico sul sito della Camera. «Il contenuto si apprenderà dalle relazioni del relatore», ha precisato il deputato dem Federico Gianassi.

La memoria ripercorre sostanzialmente i concetti già espressi in Aula lo scorso febbraio da Nordio e Piantedosi, difendendo le azioni del Governo come necessarie per tutelare l’interesse dello Stato. Si fa riferimento alla “sussistenza dello stato di necessità”, sancita dall’articolo 25 del Responsibility of State for Internationally Wrongful Acts 2001 della International Law Commission delle Nazioni Unite, norma che, secondo i vertici di Governo, legittimerebbe sul piano del diritto interno le condotte di tutti i politici coinvolti, al fine di salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave e imminente.

La stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la cui posizione è stata archiviata, aveva già citato ragioni di sicurezza nazionale nella decisione di espellere Almasri. Nell’incartamento trasmesso alla Giunta viene citato anche l’articolo 9 della legge Costituzionale n. 1 del 1989, secondo cui l’Assemblea può negare l’autorizzazione a procedere se ritiene che l’inquisito abbia agito per tutelare un interesse dello Stato o un preminente interesse pubblico.

La memoria conferma inoltre quanto sostenuto nella prima memoria di febbraio: Nordio aveva respinto le accuse, affermando di non essere un “passacarte” e richiamando lo stato di necessità. Sull’atto di espulsione firmato da Piantedosi si citano motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, evidenziando che l’intervento è stato rapido a causa della pericolosità del soggetto e dei rischi derivanti dalla sua permanenza in Italia.

Durante la scorsa seduta, Gianassi aveva letto la lunga relazione, ma parte della discussione si era concentrata sul ruolo di Giusi Bartolozzi, iscritta sul registro degli indagati dalla procura di Roma per false dichiarazioni davanti al Tribunale dei Ministri. In quell’occasione, il deputato di FdI Dario Iaia ha richiamato il tema della “ministerialità” del reato e il ruolo della Camera nell’accertarla, sottolineando che il reato ipotizzato «si sarebbe verificato soltanto sulla base di fatti precedenti», cioè le condotte attribuite al ministro Nordio, configurando una connessione teleologica. Iaia ha citato la sentenza n. 241/2009 della Consulta per ribadire che la Camera può valutare la natura ministeriale dei reati e perfino sollevare conflitto di attribuzione: «Non può essere sottratta all’organo parlamentare la propria autonoma valutazione».

Sulla stessa linea Enrico Costa di FI, secondo cui «non vi è un impedimento all’esame da parte delle Camere dei casi di connessione tra reati contestati ai ministri e ai co-indagati laici». Per Laura Cavandoli della Lega, l’articolo 4 della legge 219/1989 e l’articolo 110 c.p. offrono spunti per approfondire il tema del concorso o della connessione. Enrica Alifano (M5S) ha invece precisato che la Giunta non può allargare il perimetro oltre la richiesta del Tribunale dei ministri: «Il thema decidendum è quello posto dalla richiesta del Tribunale, non dalle voci di stampa», richiamando il dato letterale della legge 219/1989: «Il comma 2 dell’articolo 4 tratta di fattispecie che riguardano concorrenti: qui non vi sono concorrenti nei reati contestati ai ministri».