Il 27 novembre il Segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti, ha proposto dalla sua pagina Facebook «7 domande (un po’ provocatorie ma non troppo) agli avvocati che sono favorevoli alla riforma Nordio. Per un confronto costruttivo sono preferibili solo risposte argomentate» aveva concluso il magistrato. Noi abbiamo raccolto le risposte di Giuseppe Belcastro, presidente della Camera Penale di Roma. Di seguito le risposte alle prime tre domande, domani la seconda ed ultima puntata. 

La Corte Costituzionale nella sentenza n. 34/2020 ha affermato che “Le differenze che connotano le posizioni del pm e dell’avvocato difensore impediscono di ritenere che il principio di parità possa tradursi in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà”. Ritenete davvero possibile e utile la trasformazione del pm nell'avvocato dell'accusa?

La domanda contiene un piccolo artificio retorico perché muove da una premessa inesistente: la riforma non trasforma il PM nell’avvocato dell’accusa, ribadendone anzi la qualità di magistrato, ma mira a garantire che il giudice, la cui imparzialità rispetto ai fatti di causa è già garantita da istituti come la ricusazione e l’astensione, sia anche terzo, vale a dire equidistante dalle figure che contraddicono. Il sistema accusatorio funziona soltanto così. L’asimmetria dei poteri tra accusa e difesa in sede procedimentale a cui allude la sentenza citata non ha a che spartire né con la terzietà del giudice né con la riforma; anzi, se malintesa, può compromettere quella terzietà, perché introduce nel sistema l’idea che il pubblico ministero, per via del mandato pubblico che esercita, stia un gradino più in alto del difensore. Insomma, letta così, sarebbe una bella dichiarazione di amore per il sistema inquisitorio.

In nome della parità delle armi tra accusa e difesa, sareste disposti ad accettare che il pm non sia più costretto a portare davanti al giudice anche le prove a favore dell’imputato e che possa impugnare tutte le sentenze di assoluzione, facoltà che oggi gli è preclusa?

Altro è essere tenuti a fornire prove favorevoli nelle quali ci si è imbattuti altro è cercarle dopo aver selezionato l’opzione “colpevolezza” ed esercitato l’azione penale o comunque dopo aver dato corso ad iniziative investigative e cautelari: un pio desiderio, insomma, quasi una ricostruzione mitologica di cui in aula non si hanno testimonianze, tanto che se espungessimo dal codice l’art. 358 nessuno se ne accorgerebbe per decenni. La seconda parte (impugnare le assoluzioni) intanto non è affatto implicata dalla separazione delle carriere. Invece, l’idea che il pubblico ministero possa impugnare le assoluzioni trascura la funzione strutturale del processo penale che non è quella di accertare le verità storiche né di combattere i fenomeni, ma quello di contenere il potere soverchiante dell’autorità pubblica nei confronti dei singoli accusati di aver violato il precetto penale. Messa così, il divieto di impugnare le assoluzioni, in termini generali, contribuisce a preservare il sistema dall’unico possibile errore giudiziario: la condanna dell’innocente.

Vi sembra sostenibile in termini di efficienza un sistema come quello italiano in cui, in base ai dati CEPEJ più recenti, ci sono, rispetto alla media europea, quasi il triplo degli avvocati (398 ogni 100.000 abitanti a fronte di una media europea di 155) e un terzo dei pubblici ministeri (4 pm ogni 100.000 abitanti a fronte di una media europea di 12)?

Non so se è sostenibile, ma non va bene. Occorrerebbe ripensarlo. Chiarendoci però prima sul fatto che “efficienza del sistema” non è “velocità del sistema”, quanto piuttosto un tempo ragionevole combinato, in posizione recessiva, con le qualità del processo in sé e della decisione. Dopodiché: tutto ciò non ha a che fare né tanto né poco con la riforma ordinamentale di cui discutiamo.