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Marcello Dell'Utri, già cofondatore di Forza Italia
La Corte di Cassazione ha messo la parola fine al procedimento sulla confisca dei beni di Marcello Dell’Utri, dichiarando inammissibili i ricorsi presentati dalla Procura e dalla Procura generale di Palermo. Nelle 22 pagine di motivazioni, depositate dopo la decisione del 16 ottobre, la quinta sezione penale parla di contestazioni “generiche” e prive di “elementi nuovi”, rendendo definitivo il pronunciamento con cui il Tribunale di Palermo, sezione Misure di prevenzione, aveva respinto la richiesta di confisca e di applicazione della sorveglianza speciale per cinque anni.
Il ricorso riguardava non solo l’ex senatore e cofondatore di Forza Italia, oggi 84enne e già condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, ma anche la moglie Miranda Ratti e i figli Marco Jacopo, Chiara e Marina Dell’Utri. La Cassazione non entra nel merito delle contestazioni e conferma così integralmente la decisione del giudice di prevenzione.
La Procura palermitana aveva sostenuto che conti correnti, ville di grande valore e operazioni immobiliari – spesso collegate all’amico Silvio Berlusconi – fossero sproporzionate rispetto alle capacità economiche dell’ex senatore e da considerarsi frutto dell’influenza esercitata proprio su Berlusconi. Tuttavia il Tribunale aveva escluso la sussistenza dell’attualità della pericolosità sociale, ritenendo non provata l’origine illecita dei beni, soprattutto alla luce della distanza temporale tra i reati contestati e le operazioni patrimoniali.
Il giudice relatore aveva inoltre evidenziato che le misure di prevenzione non potessero applicarsi in mancanza di un solido collegamento tra condotte illecite e accrescimento patrimoniale. L'informativa della DIA di Firenze del 15 settembre 2021 e la relazione dei consulenti tecnici del pm erano state considerate troppo generiche, insufficienti a dimostrare l’intestazione fittizia di beni o la derivazione illecita di ricchezze accumulate dalla famiglia Dell’Utri.
Nemmeno la vicenda della vendita della villa “Comalcione”, acquistata da Berlusconi per 21 milioni di euro nonostante una stima di 9 milioni, è stata ritenuta idonea a dimostrare un arricchimento illecito. Le motivazioni osservano che le operazioni economiche ricostruite non consentono di attribuire ulteriori reati al proposto. Quanto all’acquisto di immobili all’estero, come la villa nella Repubblica Dominicana, la Cassazione conferma che non è stata fornita prova sufficiente per collegare tali operazioni a condotte illecite.
Sul presunto “linguaggio criptico” riscontrato nelle intercettazioni, i giudici hanno ritenuto che non fosse supportato da ulteriori elementi concreti e non potesse costituire indizio sufficiente per ribaltare la decisione di merito.


