PHOTO
Un contesto accusatorio «costellato da indicazioni astruse, contorte, non di rado distoniche», pieno di «discrasie», quando non addirittura «un disallineamento semantico fra le espressioni tacciate di falsità e quello che effettivamente era riversato nelle imputazioni». Sono parole pesanti quelle pronunciate dall’avvocato Cinzia Bernini nell’incipit della sua discussione nel processo “Angeli e Demoni”, sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Bernini difende insieme all’avvocato Elisabetta Strumia Annalisa Scalabrini, assistente sociale per la quale la pm Valentina Salvi ha chiesto sei anni e quattro mesi di carcere.
«Sono state tante le volte in cui abbiamo dovuto leggere e rileggere i capi d’imputazione, centinaia di volte, per capire esattamente quale fosse l’oggetto dell’imputazione - ha evidenziato Bernini -. Ciononostante con quelle imputazioni ci siamo confrontati ed è proprio da questo confronto che quelle imputazioni sono uscite, di fatto, demolite, crollate sotto il peso imponente dei moltissimi elementi che hanno restituito un quadro totalmente difforme da quello proposto dall’accusa». Insomma, un processo che non ha prodotto prove, se non favorevoli alle difese. Elementi, «tanti», che l’accusa «ha radicalmente travisato» oppure «completamente pretermesso».
La requisitoria ha infatti ignorato i controesami, come se non ci fossero mai stati, ignorando tutti gli elementi emersi. Quelli essenziali, ha aggiunto Bernini, perché «valutati in una necessaria sinergia con le complessive risultanze processuali conducono a ritenere che nei confronti della dottoressa Scalabrini debba essere pronunciata una sentenza di assoluzione per l’insussistenza del fatto, con riferimento a tutte, nessuna esclusa, le imputazioni che sono state formulate nei suoi confronti».
Bernini è partita dal caso di A. B., la bambina che, a scuola, aveva detto alle maestre di sentire la «mancanza del sesso» col compagno della madre. Nel corso della lunga discussione del pm e delle parti civili, ha sottolineato la legale, «non li ho mai mai sentiti confrontarsi col principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, quel principio immanente del nostro ordinamento costituzionale, prima che ordinario, secondo cui la condanna è possibile solo se vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato». Un principio granitico e base della grammatica dibattimentale.
«Il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione è dunque una regola di giudizio - ha evidenziato -, così ha detto la Cassazione, che definisce lo standard probatorio necessario per pervenire alla condanna dell’imputato». Le ipotesi verosimiglianti non sono sufficienti e nemmeno quelle fortemente plausibili. «Figurarsi quindi, se possono essere sufficienti per condannare soltanto delle suggestioni o dei convincimenti personali - ha incalzato Bernini -. Durante l’illustrazione delle conclusioni da parte dell’accusa, pubblica e privata, si è sentita una sorta di paradosso, perché il pubblico ministero ha ripetutamente richiamato quelle aprioristiche convinzioni dalle quali, a loro dire, sarebbero stati mossi gli imputati. Convinzioni che integrerebbero una sorta di movente ideologico», in particolare con riferimento alla convinzione che i minori fossero vittime di abusi.
«Poi però, paradossalmente», pm e parti civili «hanno apparentemente fondato il loro argomentare inquisitorio proprio su di una aprioristica convinzione, quella della responsabilità penale della dottoressa Scalabrini e degli altri, una convinzione che, tuttavia, è completamente sganciata da quel crisma di quella certezza processuale assoluta che delinea lo standard probatorio necessario per giungere a una condanna», ha evidenziato Bernini.
Una convinzione che sembra essersi formata «attraverso la distorsione, l’obliterazione, l’emarginazione di elementi favorevoli all’imputata che sono invece state restituite una ad una all’esito della complessa attività di formazione della prova del dibattimento, elementi che hanno un unico irrimediabile difetto: quello di contraddire, quando non addirittura di confutare, l’ipotesi accusatoria». Nell’approcciarsi alla discussione dei singoli capi di imputazione, poi, l’accusa non avrebbe sottoposto il proprio ragionamento accusatorio «alla prova di resistenza che deve oltre ogni ragionevole dubbio».
Non a caso, secondo Bernini, le parti civili hanno parlato di «visione del pubblico ministero», come se ci fosse, ab origine, «una visione preconcetta della responsabilità degli imputati e si dovessero trovare le circostanze a conferma di quella visione, a supporto di quella visione». Insomma, si tratta forse di «un approccio verificazionista teso unicamente a ricercare la conferma di quella primigenia visioni, ignorando e comunque minimizzando quelle circostanze che la disconfermano o che la mettono in crisi? Una domanda a cui spetta a voi giudici rispondere». Chiare risultanze processuali con le quali la pm non si sarebbe confrontata: gli incontri protetti, da più parti - famiglia compresa - definiti sereni e affettuosi, nella narrazione della pm sono diventati addirittura «agghiaccianti».
«Quel che risulta davvero incomprensibile - ha aggiunto Bernini - è il fatto che il pm continui ostinatamente a sostenere la fondatezza dell’accusa di frode processuale, affermando che la prova del “cambiamento dello stato emotivo di A.” si debba trarre dalle testimonianze e, in particolare, dalla percezione che i familiari» della bambina «avevano avuto durante gli incontri protetti». Una bambina completamente diversa, che non aveva più gesti d’affetto, secondo il pubblico ministero. «Peccato che il nonno abbia invece ripetutamente ammesso, durante il mio controesame, che A. è sempre stata affettuosa, anche durante gli incontri protetti», ha sottolineato Bernini.
E la stessa madre della bambina, in sede di sit il 14 febbraio 2019 - verbale che non è mai stato versato nel fascicolo delle indagini preliminari -, affermò, vedendola una volta ogni 15 giorni, «di vederla serena». Ma già prima la donna, «scrivendo un messaggio proprio alla dottoressa Scandini, il 19 settembre del 2018, e riferendosi a quanto aveva osservato in occasione di un incontro protetto del 6 settembre, aveva ammesso: “Io lo vedo che A. sta meglio”».
E aveva dato anche atto di aver notato in modo più ampio cose positive. Dov’è, allora, la cittadinanza di quella immutazione artificiosa? Anche la nonna, in aula, ha riconosciuto che la bambina stava bene, uno stato d’animo immortalato da una fotografia poi usata dalla stessa donna come immagine profilo di Whatsapp e scattata il 19 giugno 2018. Il rapporto che la bambina aveva coi propri nonni, dunque, non era stato alterato: «Le emozioni positive mostrate da A. nei confronti dei propri nonni, restituite dalla testimonianza delle fotografie, risultavano indicative di un rapporto conservato, nonostante quell’incontro avvenga 72 giorni dopo, come dice la nonna, l’allontanamento. Con buona pace della fondatezza dell’ipotesi accusatoria». Eppure, tutti questi elementi sono completamente scomparsi dal ragionamento accusatorio, «come se non fossero importanti o peggio, come se non fossero mai stati raccolti».
Bernini ha denunciato anche un uso spregiudicato delle dichiarazioni delle persone offese. «Il pubblico ministero ha considerato sinceri a prescindere mamma e nonni, ignorando la contraddittorietà interna ed esterna delle loro dichiarazioni». E ha ricordato come la famiglia, pur non costituita parte civile al processo, abbia avanzato una richiesta danni verso la Scalabrini, rendendosi così «portatrice di un interesse economico confliggente con l’imputata».
Sono però «innumerevoli i momenti in cui le dichiarazioni accusatorie sono risultate contrastate da altri elementi parimenti acquisiti a questo processo. E invece da parte della pubblica accusa, e anche dell’accusa privata, non c’è stato nessun riferimento mai alla necessità di confrontarsi con quel principio, spiegare perché» le dichiarazioni dei familiari «devono essere ritenute più credibili rispetto alle dichiarazioni di altri testimoni disinteressati: sono considerati sinceri a prescindere».
La pm si sarebbe mossa «come i cercatori d’oro del diciannovesimo secolo: col loro setaccio ispezionavano, granello per granello le sabbie aurifere in cerca di quel prezioso metallo. Il pubblico ministero ha scandagliato giorni, mesi, anni di attività del servizio sociale, ogni singola chat, ogni singolo messaggio, ogni singola mail, ha osservato al microscopio la loro vita, personale e professionale, attraverso spesso e volentieri l’esame di uno smartphone - ha evidenziato Bernini -. Ne ha interpretato le parole, le espressioni, le valutazioni personali e professionali, pretendendo addirittura di indovinarne i pensieri, le emozioni, le riflessioni, anche le più intime ed è ritornato da questo lunghissimo viaggio processuale convinto di aver raccolto prove luccicanti della sua penale responsabilità. La realtà, a mio sommesso ma fermissimo avviso, è tutta un’altra: sul setaccio del pubblico ministero sono rimasti soltanto elementi congetturali, infinitesimali, polverosi, incoerenti, illogici, sostanzialmente inconsistenti, quindi totalmente incapaci di rimanere aggrappati saldamente alle maglie del setaccio della ricerca della verità processuale, l’unica con la quale ci si deve confrontare per stabilire se sia realmente emersa la prova certa oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza» di Scalabrini.
Si sarebbe trattato, dunque, «soltanto di suggestioni, del tutto prive di qualsivoglia valore probatorio». In questa sorta di «corsa all’oro verso la ricerca della verità processuale in cui però c’è in gioco la libertà e quindi anche la vita della nostra assistita, ad essere autenticamente preziose sono in realtà tutte quelle circostanze, tutti quegli elementi, numerosissimi, che sono invece incomprensibilmente stati male interpretati, minimizzati, trascurati dalla pm e che dimostrano, al contrario, la palese insussistenza dei capi d’accusa, quando non addirittura in moltissimi casi, l’evidenza dell’innocenza, la manifesta innocenza della dottoressa Scalabrini, una giovane assistente sociale che non ha fatto altro che svolgere in scienza e coscienza il suo lavoro, la sua professione, una professione difficile, delicata. Ecco dunque qual è l’oro, quello vero. Sono i numerosissimi elementi che non hanno trovato spazio nei ragionamenti accusatori e che sono invece imprescindibili per restituire la verità processuale - ha concluso -. Che, siamo convinte, può essere una sola: una sentenza di assoluzione».