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L'aula del processo Angeli e Demoni piena di gente durante l'udienza di questa mattina
«In requisitoria ho sentito dire che molte delle cose avvenute in questo processo non verranno dimenticate. C’è sempre una prima volta e speriamo che sia anche l’ultima». Ha esordito così giovedì in aula l'avvocato Jenny Loforese, difensore dell’educatrice Maria Vittoria Masdea, per la quale la pm Valentina Salvi ha chiesto una condanna e 4 anni e l’assoluzione per depistaggio perché il fatto non sussiste. Oltre a Loforese, giovedì sono intervenuti anche i difensori di Sara Gibertini, assistente sociale (chiesti 5 anni), difesa da Federico De Belvis e Francesca Guazzi, e Marietta Veltri (chiesti 3 anni), anche lei difesa da De Belvis.
Loforese ha sottolineato il carattere straordinario del processo, non per la gravità dei reati, ma per il modo in cui è stato condotto e rappresentato pubblicamente. La narrazione dominante avrebbe posto in secondo piano le responsabilità genitoriali, fatte di situazioni familiari problematiche: un padre distante, condannato per rapina a mano armata, una madre assente, che chiama le forze dell’ordine per sedare liti con la figlia, e una bambina, K., che lasciata a casa da sola dai genitori non pensa di chiamare loro, ma di chiamare i carabinieri, chiedendo aiuto. Una ragazza che, appena maggiorenne, ha potuto assistere solo all’apertura della requisitoria della pm e delle parti civili, ma non alle arringhe difensive, «che forse l’avrebbero aiutata a capire meglio cos’è successo».
Rispetto alla posizione di Masdea, Loforese ha respinto le accuse di falso e di partecipazione a un disegno criminale, sottolineando l’assenza di una reale contestazione dell’associazione a delinquere. «Per il depistaggio - ha evidenziato - chiedo l’assoluzione già chiesta dal pm». Per i falsi, invece, ha invocato la prescrizione, poiché gli atti non erano fidefacenti. La legale ha però chiarito che la sua assistita «preferirebbe un’assoluzione piena perché i fatti non sussistono, come accertato all’esito del dibattimento».
Loforese ha criticato duramente l’approccio degli inquirenti, in particolare per gli interrogatori e per il clima pesante che ha caratterizzato la fase delle indagini. «Ho sentito dire che nel corso delle indagini non ci sarebbe stato alcun condizionamento», ma ciò non sarebbe vero, secondo Loforese, che ha criticato gli interrogatori durante le indagini, sia per le modalità che per il clima. «È stato smentito quanto ho sentito affermare in requisitoria che gli educatori temessero Francesco Monopoli (assistente sociale) e Federica Anghinolfi (ex responsabile del Servizio) - ha evidenziato -. È interessante anche notare come pm e maresciallo si siano accaniti su Masdea senza neanche accertare che ad un incontro descritto in relazione masdea nemmeno c’era. Neppure è stata esaminata la documentazione fornita al momento dell’interrogatorio di garanzia, perché le prove a discarico non interessavano».
Loforese ha inoltre criticato il continuo utilizzo e rimando a documenti che riguardano altri soggetti, altre posizioni, altri periodi temporali, spesso sempre successivi alle relazioni delle educatrici anche di un anno dopo. «Piace parlare di sette di pedofili per impressionare - ha sottolineato -, ma ad alcuni di quegli interrogatori presenziai e fu allucinante». E riferendosi alla testimonianza dell’assistente sociale Muraca, ha messo in evidenza le contraddizioni: «È imbarazzante la testimonianza di Muraca che non ha mai lavorato con Masdea o sul caso di K. - ha sottolineato -. Quando le viene chiesto in che modo K. sarebbe stata vittima della presunta setta, la risposta è: “Non lo so”».
Loforese ha anche affrontato il tema del presunto rifiuto della minore di vedere i genitori, contestandolo con elementi documentali: «Nelle relazioni delle educatrici non trovo questo rifiuto. Anzi, veniva evidenziato che K. arrivava molto sorridente agli incontri», chiedendo più volte «quando avrebbe visto il padre». E in una relazione era stato anche sottolineato come «K. normalmente affermi sempre di aver voglia di incontrare i genitori».
Riguardo alle accuse di aver omesso informazioni, Loforese ha richiamato la relazione del 26 settembre, firmata proprio da Masdea, che «dà ampiamente conto del desiderio di tornare a casa», pur rilevando oscillazioni emotive nella minore. In conclusione, ha ricordato il peso umano e professionale che la vicenda ha avuto sulla sua assistita: «Maria Vittoria ha vissuto i primi sei anni di vita di suo figlio con il pensiero del processo penale, del disciplinare, delle richieste risarcitorie milionarie, della gogna mediatica. Ogni pensiero che fai è reale e, anche se non è vero, lo diventa. Ma mi sembra che questo pensiero valga non solo per gli imputati quanto per gli stessi inquirenti, che hanno letto in senso univoco ed equivoco quanto scritto nelle relazioni».
Per quanto riguarda Gibertini, le viene contestato il reato di violenza privata per aver, secondo l’accusa, costretto una madre a confessare al figlio che l’uomo con cui viveva non era il suo padre biologico, con l’intento di spingerlo a riferire presunti abusi subiti da quest’ultimo. «Gibertini non era presente, in quanto in malattia, e c’era un’altra assistente sociale (non imputata, ndr) – ha sottolineato De Belvis – come la stessa madre ha raccontato». Gibertini, dunque, subentrò a una collega dopo la segnalazione di sospetto abuso, ha evidenziato Guazzi. Che ha sottolineato come «Gibertini preparò un documento di sette pagine assieme a un’altra professionista: nonostante quest’ultima abbia apportato modifiche sostanziose, non è mai stata indagata».
Ma non solo: Il contenuto delle relazioni «è stato confermato dai minori e dagli affidatari e non è stato misconosciuto dai genitori naturali, che hanno accettato condizioni legali per disconoscere e confutare», ha evidenziato De Belvis. «Il ruolo delle educatrici era di osservazione: dovevano riferire tutto ciò che osservavano. L’istruttoria non ha fornito alcun elemento di prova sul fatto che le relazioni contenessero falsità. Oltre che di falsificazione, nei capi d’imputazione si imputa l’equivocità». Ma l’equivocità è opera «di chi le scrive o in chi le legge? A nostro avviso l’equivoco è stato inscindibile da chi legge».
Per quanto riguarda la posizione di Veltri, ex coordinatrice dei servizi sociali oggi in pensione, è accusata in concorso di aver cercato di indurre la madre della bambina – al centro del caso-pilota dell’inchiesta – a denunciare il compagno per presunti abusi sulla figlia. Come ha affermato l’avvocato De Belvis: «La mamma disse che Veltri si dimostrò arrogante per farle depositare la querela e al contempo depositò una registrazione audio dalla quale però non emergono pressioni... Quindi la madre non raccontò il vero».