L’ultima apparizione, suo malgrado, l’ha fatta in un video di propaganda diffuso un mese fa dal ministro per la Sicurezza nazionale di Israele, Itamar Ben Gvir, in cui quest’ultimo lo arringa: «No, non ci sconfiggerete. Chiunque abbia aggredito il popolo di Israele, chiunque abbia ucciso i nostri figli, le nostre donne, lo stermineremo. Dovreste saperlo è sempre stato così nel corso della Storia». Il video non mostra la sua risposta a Ben Gvir.

Marwan Barghouthi, dirigente di alto livello di Al Fatah viene spesso indicato come il probabile successore di Mahmoud Abbas alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese, noto anche come “il Mandela palestinese” e “Abu al Qassam”, ha 65 anni e da 23 è detenuto in carcere in regime di isolamento. Lo Shin Bet nel 2002 lo ha arrestato a Ramallah, vicino al suo paese natale Kobar in Cisgiordania, processato e condannato a cinque ergastoli più un’addizionale di 40 anni da un tribunale israeliano, in quanto ritenuto colpevole d’essere il mandante degli attentati suicidi perpetrati dalla Brigata dei Martiri al Aqsa, di cui era a capo, durante la seconda Intifada. Nel corso del processo ha rinunciato alla sua difesa in quanto, come cittadino palestinese residente in Cisgiordania non riconosceva la giurisdizione del tribunale israeliano che lo ha inquisito. L’anno precedente era scampato ad un tentativo di assassinio da parte delel forze israeliane.

Nelle ultime settimane il suo nome è tornato all’attenzione delle cronache, essendo stato inserito da Hamas nella lista dei prigionieri di cui chiede la liberazione in cambio del rilascio degli ultimi ostaggi del 7 ottobre ancora detenuti nella Striscia. Sulla sua liberazione però Netanyahu, su richiesta di Ben Gvir, avrebbe posto il proprio veto. Unitosi a soli 15 anni, nel 1974, al partito laico socialista al Fatah, fondato da Yasser Arafat, contribuisce alla fondazione del movimento giovanile del partito: al Shabiba. Tre anni dopo viene arrestato per la prima volta con l’accusa di essere membro di al Fatah, al tempo considerata da Israele un’organizzazione terroristica, e per la sua partecipazione ad alcune proteste contro l’occupazione delle forze israeliane.

Nel corso della sua prima detenzione si diploma e impara la lingua ebraica. Una volta rilasciato, nel 1983, torna in Cisgiordania, dove si iscrive all’università di Bir Zeit a Ramallah. Un anno dopo viene nuovamente arrestato e detenuto per 50 giorni, durante i quali viene duramente interrogato e torchiato prima d’essere messo agli arresti domiciliari per essere poi arrestato e posto in detenzione amministrativa nei mesi successivi.

Il suo impegno e il ruolo assunto all’interno del partito socialista palestinese, soprattutto durante la prima intifada, lo hanno posto sotto la lente delle forze israeliane che lo arrestarono e deportarono in Giordania. Trasferitosi in Tunisia dopo la deportazione viene eletto membro del Consiglio rivoluzionario di al Fatah. Rientrato in Cisgiordania nel 1994 a seguito degli Accordi di Oslo assume la carica di segretario di al Fatah in Cisgiordania.

Nel corso della sua militanza nelle file del partito ha denunciato a più riprese la corruzione presente nell’Anp scontrandosi spesso con i suoi vertici. Negli anni precedenti la seconda intifada ha iniziato un’opera di riorganizzazione di al Fatah nella Cisgiordania occupata e di ampliamento della sua azione politica, prendendo contatti con attivisti israeliani di sinistra e associazioni per la pace nella speranza che gli Accordi di Oslo potessero portare alla creazione di uno Stato palestinese. Con l’inizio della seconda intifada Barghouthi assume un ruolo di primo piano partecipando alle manifestazioni e alle proteste.

Si è sempre detto contrario, ed anzi ha condannato, le azioni contro i civili israeliani, ha promosso la resistenza non violenta contro il colonialismo dello Stato ebraico e ha sempre sostenuto che pace e sicurezza potranno essere raggiunte solo con la fine dell’occupazione. C’è una fotografia del 20 maggio 2004, giorno della sua condanna, che lo ritrae sorridente con le braccia alzate, le mani giunte e le manette ai polsi. Pochi attimi dopo dirà una frase che condensa l’anima della resistenza palestinese: «Potete catturare i nostri corpi, ma non le nostre menti».