Il governo iraniano ha aggiornato il bilancio ufficiale delle vittime della guerra di dodici giorni con Israele, confermando almeno 1.060 morti, con la possibilità che il numero salga a 1.100 a causa delle condizioni critiche di molti feriti. A rendere noto il dato è stato Saeed Ohadi, presidente della Fondazione per i martiri e gli affari dei veterani, durante un’intervista trasmessa dalla televisione di Stato lunedì sera.

Si tratta della prima stima ufficiale così dettagliata da parte di Teheran dopo la fine delle ostilità. Durante i combattimenti, infatti, l’Iran aveva minimizzato l’entità dei danni causati dai raid israeliani, preferendo mantenere un profilo di forza e resilienza. Solo ora, a cessate il fuoco raggiunto, emergono i primi riconoscimenti pubblici della gravità delle perdite subite, sia in termini di vite umane sia di infrastrutture strategiche.

Secondo l’organizzazione Human Rights Activists, con sede a Washington, il numero delle vittime sarebbe addirittura superiore: 1.190 morti, tra cui 436 civili e 435 membri delle forze di sicurezza, oltre a 4.475 feriti. Il gruppo è considerato una fonte attendibile, già nota per le sue documentazioni relative alle ondate di proteste interne in Iran negli ultimi anni.

Dal punto di vista militare, la guerra ha lasciato un’impronta pesante sul sistema difensivo iraniano. Secondo fonti internazionali, i bombardamenti israeliani avrebbero decimato le difese aeree, colpito duramente siti militari strategici e danneggiato alcune infrastrutture legate al programma nucleare. L’Iran, tuttavia, non ha ancora fornito una stima ufficiale delle perdite in termini di armamenti e materiali.

Il progressivo riconoscimento dei danni sembra confermare la portata dell’offensiva condotta da Israele, che nelle scorse settimane aveva parlato di una campagna «chirurgica ma decisiva» contro le capacità militari della Repubblica Islamica. Resta ora da capire come questo bilancio influenzerà la politica interna ed estera di Teheran, nel momento in cui si apre una fragile finestra diplomatica segnata dalla ripresa dei colloqui sul nucleare.