Il pane e il sangue: nell’ultimo mese e mezzo sono oltre seicento i palestinesi rimasti uccisi nella Striscia mentre cercavano di procurarsi del cibo e altri generi di prima necessità, una strage quotidiana quanto insensata. Molti di loro sono caduti sotto i colpi dell’esercito israeliano, ma come è stato rivelato da un’inchiesta dell’Associated Press, ripresa da Politico, The Independent e Sky International a sparare contro la popolazione di Gaza non ci sono soltanto i cecchini dell’Idf.

Decine di testimoni denunciano infatti i metodi brutali dei contractor americani della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’organizzazione che dallo scorso 27 maggio gestisce il sistema degli aiuti umanitari e l’80% dei punti di distribuzione. I racconti sono raggelanti: granate assordanti, spray al peperoncino e pallottole vere e proprie sparate da corta distanza contro i civili affamati, costretti ad attraversare le zone più militarizzate per ottenere un sacco di farina. Le stesse Nazioni Unite parlano di un’organizzazione «pericolosa e letale».

La GHF è una fondazione privata fondata nel 2025 finanziata da capitali americani e israeliani, ma dietro la facciata filantropica agisce una rete opaca di interessi politico-militari. Ufficialmente è diretta da due figure chiave del mondo politico e diplomatico statunitense: John Acree, ex alto dirigente dell’agenzia governativa USAID (United States Agency for International Development), e Johnnie Moore, ex consigliere di Donald Trump, pastore evangelico e specialista in relazioni pubbliche.

Moore è noto per il suo impegno politico a fianco del presidente americano di cui è un sostenitore convinto e che ha aiutato nel conquistare l’elettorato più religioso durante le sue tre campagne presidenziali. Naturalmente è anche un buon amico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e un ammiratore dell’ala più estremista del suo governo. Durante il primo mandato del tycoon, si è distinto nella campagna internazionale promossa da gruppi evangelici per ottenere il riconoscimento ufficiale di Gerusalemme come capitale d’Israele e per il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv, poi avvenuto nel 2018. Non proprio il profilo di un operatore umanitario disinteressato.

Oltre all’aspetto ideologico c’è poi quello militare. La GHF è infatti collegata a una società di sicurezza privata americana, Safe Reach Solutions, guidata da Philip Francis Reilly, ex ufficiale della CIA dagli anni 80 specializzato in operazioni clandestine e di controspionaggio e nel sostegno a formazioni paramilitari come i Contras in Nicaragua. I dipendenti reclutati sono tutti ex membri delle forze speciali, esperti di guerra non convenzionale, abituati più all’uso di mitragliatrici che alla gestione delle crisi umanitarie. McNally Capital, fondo d’investimento miliardario fondato nel 2008 e noto per i suoi interessi nel settore della difesa, è tra i principali finanziatori della Fondazione e ha inoltre partecipato direttamente alla creazione di Safe Reach Solutions.

Il nome di Charles J. Africano, ex dirigente di Blackwater (la compagnia responsabile della strage di civili iracheni di Piazza Nissour a Baghdad nel 2007), compare nel registro ufficiale israeliano come responsabile di Safe Reach Solutions. Africano è anche collegato a Quiet Professionals, un’altra società militare privata con sede in Florida, anch’essa ora sotto il controllo del fondo McNally.

Nonostante le ripetute denunce dell’Onu e delle altre ong impegnate in Medio Oriente il 26 giugno il Dipartimento di Stato americano ha annunciato un ulteriore finanziamento di trenta milioni di dollari alla GHF tramite l’agenzia USAID che continuerà a operare e a imperversare anche nei prossimi mesi e chissà per quanto altro tempo ancora.

Più che un intervento umanitario, quello della Gaza Humanitarian Fondation appare come un progetto militarizzato e politicamente orientato, concepito per trasformare la fame in strumento di governo e di controllo della popolazione, in attesa che Donald Trump, Benjamin Netanyahu e gli altri emiri del Golfo decidano cosa fare degli oltre due milioni di palestinesi della Striscia che ogni giorno lottano per la sopravvivenza.