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Sfratto del Centro Sociale Leoncavallo - Milano, 21 Agosto 2025 (Foto Claudio Furlan/Lapresse) Eviction of the Leoncavallo Social Centre - Milan, 21 August 2025 (Photo Claudio Furlan/Lapresse)
“Il Leoncavallo” non è la semplice vicenda di un Centro sociale occupato e sgomberato dopo cinquant’anni di vita. “Il Leoncavallo” è la storia della Milano degli anni settanta. Meravigliosi e terribili. La ricchezza del pensiero, le università occupate, la creatività dei tanti gruppi e gruppuscoli eredi della fantasia al potere del sessantotto. La cultura e la musica. I raduni pop al parco Lambro organizzati dalla rivista Re Nudo di Andrea Valcarenghi, dove si impazziva per Franco Battiato e la Premiata Forneria Marconi, e ci si trovava anche in ventimila.
Gli anni delle strade e piazze piene. E poi l’ideologia che si è fatta violenza. E mentre nasceva il terrorismo, che a Milano ebbe connotazione operaia e partì dalle grandi fabbriche, qualcosa di più subdolo correva parallelo, figlio dell’odio e del rancore, ed era la sub-cultura dell’antifascismo militante, speculare alla violenza della destra estrema.
“Il Leoncavallo” è nato in quei giorni, a cavallo di quel clima di reciproca intolleranza. E’ sorto fin da subito, era il 1975, come un centro sociale non qualunque, perché lo stabile abbandonato che verrà occupato, nella via che gli darà il nome, sorgeva al Casoretto, quartiere “rosso” di lunghe tradizioni di famiglie operaie e militanza. E’ stato da subito e fino a ieri, nella seconda sede di via Watteau, caratterizzato dall’antifascismo, come dimostra l’esistenza del gruppo delle “Mamme antifasciste del Leoncavallo”, ormai le uniche titolari del centro sociale. Una denominazione che allora aveva un senso, a partire da quel che successe proprio in quell’anno, e poi tre anni dopo, con le uccisioni di due ragazzini diciottenni proprio del Leoncavallo, Fausto e Iaio. Non fu certo responsabilità, né politica né penale, del centro del Casoretto, quel che successe in un’altra zona “rossa”, l’istituto tecnico Molinari, frequentato da un altro diciottenne, Sergio Ramelli.
Un ragazzo di destra in una scuola di sinistra, studenti e insegnanti. Ed era stato proprio un professore a segnalare il tema di quel ragazzo che criticava le Brigate rosse e lamentava la mancata solidarietà nei confronti delle loro vittime. Così qualcuno pensò di dare una lezione al “fascistello”. Sergio Ramelli fu atteso sotto casa e sprangato con una chiave inglese, morì dopo un’agonia di venti giorni. Solo anni dopo il giudice Guido Salvini farà processare i responsabili del delitto, il collettivo della facoltà di medicina di Avanguardia Operaia, un gruppo della sinistra extraparlamentare meno estremista del collettivo del Casoretto e del Leoncavallo, ma che in quella circostanza aveva usato l’antifascismo per dare la morte.
La parte civile in quel processo fu rappresentata dall’avvocato Ignazio La Russa, il quale ha evidentemente saputo far tesoro di quell’esperienza. Perché la storia di Ramelli finisce con l’intrecciarsi a quella di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Jannucci, uccisi a colpi di pistola tre anni dopo, il 18 marzo del 1978. Un delitto che rimarrà impunito. Ma un po’ la ragione un po’ lo spirito dell’epoca, bollarono subito quelle morti come opera dei fascisti. Si percorse anche la pista dello spaccio, si diceva che i due ragazzi stessero facendo una ricerca sul mercato illegale dell’eroina. Certo è che quelli del Leoncavallo facevano le “ronde anti-spaccio” nel quartiere. E non erano pacifici cittadini. Centomila persone ai funerali. Antifascisti. Bandiere rosse e striscioni.
Ci saranno due date che caratterizzeranno il Leoncavallo anche come gruppo anti-sistema e fuori dalla legalità. La prima è quella del 16 agosto del 1989, quando la nuova proprietà dell’area occupata, il gruppo Cabassi, aveva ottenuto dall’amministrazione comunale guidata da Paolo Pillitteri lo sgombero del centro sociale. Fu guerra e guerriglia quel giorno. Lacrimogeni da una parte, lancio di pietre e di bottiglie molotov dall’altra. E poi arresti, processo e condanne. La seconda data è quella della violenza di piazza che portò agli sconti in piazza Duomo il primo maggio del 1991. Gruppo anti-sistema, quindi, il Leoncavallo, sia pure sempre con le stimmate dell’antifascismo.
Anche se, da questo punto di vista, il corso della storia andrà poi diversamente, e aprirà qualche spiraglio alla ragione. Ma saranno ormai passati tanti, troppi anni, quando Bruno Tinelli, fratello di uno dei due ragazzi uccisi, andrà a ricordare l’altro morto, quello “nemico” e “fascista” insieme a Paola Frassinetti, sottosegretario alla pubblica istruzione ed ex esponente del Fronte della gioventù che ha fatto mettere, quando, più di vent’anni fa, era assessore provinciale, una targa al liceo di Brera, in ricordo dei due caduti di sinistra. Così quei tre morti così giovani, Sergio da una parte, Fausto e Iaio dall’altra, sono ormai iscritti nella memoria di Milano come simboli di uno scontro che non ha onorato la città medaglia d’oro della resistenza.
Lo ha ricordato anche quest’anno colui che fu militante di destra negli anni degli scontri più violenti e che oggi è presidente del Senato: quei tre ragazzi vanno ricordati insieme, a loro andrebbe dedicato un grande parco, o un luogo di ritrovo dei giovani.
E a chi oggi chiede che cosa è, che cosa è stato “Il Leoncavallo”, potremmo rispondere che è stato tutto. La storia milanese degli anni settanta, la cultura e l’arte, la musica e i graffiti, la violenza di piazza e l’intolleranza. Ma anche, attraverso il sacrificio di quei ragazzi, la possibilità di allargare quello spiraglio della ragione chiamata a prevalere sul rancore e la vendetta politica. Una scommessa che vale la pena di fare.