PHOTO
La decisione della Corte Suprema britannica di ridefinire legalmente chi è “donna” sembra destinata a lasciare ferite non solo sul piano giuridico, ma soprattutto su quello umano. Da aprile, quando i giudici hanno stabilito che il termine si riferisce esclusivamente al sesso biologico, negli spazi pubblici del Regno Unito si è diffuso un clima di sospetto, fatto di occhi puntati, accuse improvvise e violenze verbali.
Non si tratta più solo di una questione di diritto o di politiche di genere: parliamo di vite quotidiane sconvolte, di donne costrette a giustificare il proprio corpo in luoghi che dovrebbero garantire intimità e sicurezza. Ogni ingresso in un bagno o in uno spogliatoio può trasformarsi in un tribunale improvvisato, dove la legittimità di un corpo viene messa in discussione con brutalità.
Secondo quanto riportato da The Guardian, le segnalazioni di molestie sono aumentate. Donne trans, persone non binarie, ma anche donne cisgender “non conformi” vengono messe sotto processo nei bagni pubblici. Claire Prihartini, sopravvissuta a un tumore al seno e sottoposta a doppia mastectomia, si è sentita gridare contro «C’è un uomo qui!» nello spogliatoio della piscina. Nikki Lucas, lesbica dai tratti mascolini, racconta di essere stata sputata addosso e insultata mentre cercava semplicemente di entrare in una toilette femminile. La compositrice Caz Coronel è stata fermata da uno sconosciuto che l’ha spintonata invitandola ad “andare nel bagno degli uomini”. Molte donne riferiscono di scegliere ormai i bagni per disabili, pur non avendone diritto, per evitare aggressioni verbali. Un ripiego che sottrae spazi a chi ne ha davvero necessità, ma che viene percepito come l’unica via di fuga da un clima di ostilità crescente.
Il verdetto della Corte Suprema, lungo 88 pagine, ha ribadito che “il concetto di sesso è binario”. Una posizione che chiude sette anni di contenziosi legali nati in Scozia attorno alla legge sulle “quote rosa”, ma che, di fatto, obbliga tutto il Regno Unito a rivedere le politiche inclusive degli ultimi anni.Accolta con entusiasmo da una parte del femminismo critico, con J.K. Rowling a lodarla pubblicamente, la decisione è stata bollata come “Trumpian-style ruling” dalla comunità LGBTQ+. Ma al di là delle reazioni politiche, i suoi effetti più immediati si consumano nei bagni pubblici, negli spogliatoi, nei luoghi comuni della vita di tutti i giorni. Le conseguenze non riguardano solo le donne trans. Colpiscono anche chiunque non corrisponda a un modello ristretto di femminilità: donne lesbiche “butch”, donne nere o asiatiche, persone con cicatrici o tratti considerati “maschili”. «I bagni delle donne non sono mai stati completamente sicuri per le donne nere», spiega Taranjit Chana di Black and Brown Rainbow, sottolineando come il numero di chiamate di sostegno sia aumentato negli ultimi mesi. «In alcune comunità i peli sul viso fanno parte della nostra identità, ma nei bagni pubblici questo basta per diventare bersaglio di sguardi e commenti». Bridget Symonds, direttrice di Galop, conferma: «Abbiamo registrato un forte incremento di denunce da parte di persone LGBTQ+ che hanno subito insulti o aggressioni verbali in spazi pubblici». Non solo: molte donne riferiscono di entrare in bagno già con il timore di essere osservate e giudicate. La semplice necessità fisiologica diventa fonte di ansia.
La promessa della sentenza era quella di offrire chiarezza giuridica. La realtà, invece, è una società più divisa e diffidente, dove basta un taglio di capelli o una cicatrice a trasformare un momento ordinario in un’umiliazione pubblica.
Gli spazi riservati alle donne, pensati per protezione e sicurezza, si stanno trasformando in luoghi di paura e controllo sociale. Per molte, entrare in un bagno significa chiedersi se qualcuno urlerà contro di loro, se dovranno esibire il proprio corpo per legittimarsi.
Intanto, l’opinione pubblica resta polarizzata: tra chi applaude alla “difesa dei diritti femminili” e chi denuncia la normalizzazione di pratiche discriminatorie. Nel mezzo, ci sono persone che ogni giorno vivono sulla propria pelle il peso di un verdetto trasformato in stigma sociale. E allora resta una domanda sospesa: chi sta davvero pagando il prezzo di questa decisione? Perché se il diritto ha stabilito chi può definirsi donna, la società sembra essersi presa l’onere di verificare ogni giorno chi lo sia “abbastanza”.