Quando si accostano nel “populismo d’Italia” la Lega e i Cinquestelle, si commette un errore di giudizio, basato più che altro sulla personalità e il carattere dei leader, sui riti e le scenografie di partito, e non sulla composizione politica e sociale dei due movimenti. La Lega, quella di Bossi e Maroni, è nata intorno un’idea precisa: la contrapposizione tra gli interessi del nord industriale e produttivo e la protervia e il parassitismo fiscale dello Stato unitario, del palazzo della politica, di Roma ladrona; questo significava l’identificazione con un “soggetto sociale” preciso – non solo i piccoli e medi imprenditori del Nord, ma gli operai, i lavoratori, i commercianti e gli artigiani che quella pressione fiscale subivano. Reale o no, vera o meno, questa era la loro “narrazione”.

A Bossi non è mai importato una sega del Sud – il suo “mondo” finiva al ponte di Piacenza. Non solo. Ma la lenta, iniziale costruzione di quel soggetto politico avvenne in forma “analogica” – battendo i paesi del Varesotto, uno per uno, affiggendo manifesti, sfibrandosi in lunghe chiacchierate a cena, aprendo sezioni dove ci si incontrava, tra fumisterie ideologiche, bottiglie di chinotto a go- go e folklori radicati. La Lega, nella sua singolarità, era ancora un partito del Novecento.

Questo carattere “fondativo” è rimasto anche dopo Bossi e l’avvento di Salvini, che ne ha voluto fare un partito “nazionale”, fortemente di destra, aggressivo, cavalcando ogni ondata giustizialista e populista a caccia di voti; ma, dentro, la sua anima nordista, e il suo radicamento in quei territori non solo non è mai venuto meno, ma è diventato “governativo” e responsabile, proprio perché “deve” risposte a quel soggetto sociale che in questi anni l’ha spinto avanti. E proprio dal fatto che la Lega, dove governa nelle regioni, si è dimostrata capace amministrativamente di dare risposte, viene il suo zoccolo duro.

Anche se Salvini, come sempre più spesso sta accadendo, vede schiantarsi contro un muro le sue ipotesi di partito nazionale che acchiappa dal Nord a Sud, da Udine a Lampedusa, la Lega resiste. Resisterebbe comunque. A meno di un cupio dissolvi di Salvini – che la costringerebbe a spezzarsi: l’anima “democristiana” del nord- est a quel punto farebbe da sé, in un nuovo scenario politico che potrebbe lentamente determinarsi.

Tutt’altro discorso vale per il movimento 5stelle, nato nelle piazze, intorno gli spettacoli di Beppe Grillo e i suoi “vaffa” – era questa la loro “idea”: vaffanqulo tutta la casta politica, collusa e corrotta, ci vuole onestà. Non un soggetto sociale, economico, produttivo precisamente identificato – ma il cittadino qualunque, l’elettore, il popolo. A questo “spettacolo di piazza”, Grillo accompagnava la costruzione “digitale”, a mezzo Casaleggio sr., del suo movimento: i meet-up, la semplificazione della democrazia, l’uno vale uno, la piattaforma Rousseau – un tentativo di mostrarsi futuribili, proiettati negli anni duemila. Reale o no, vera o meno, questa era la loro narrazione. E ha funzionato. D’altronde, il loro stesso cavallo di battaglia, il reddito di cittadinanza - qualunque possa essere il giudizio - va esattamente in questo senso: non a caso, è visto come il fumo negli occhi, una ennesima prova del “parassitismo statale” da quel ceto sociale produttivo rappresentato dalla Lega.

La sciabica - la pesca a strascico effettuata dai cinquestelle nel corpo sociale - ha raccolto di tutto, indifferenziatamente, e dal punto di vista territoriale, di ceto, sociale, politico: pensieri “vagamente” di destra potevano stare accostati benissimo a pensieri “vagamente” di sinistra, quello che contava è che si fosse “nuovi”, ovvero vergini di politica, perciò incontaminati, incorrotti e, per presunzione, incorruttibili. È nel corso degli anni e dell’esercizio della politica che questa massa indistinta e digitale è andata differenziandosi all’interno – in realtà mai su una questione politica vera e dirimente ma su un punto “costitutivo”: la partecipazione, o meno, alla macchina politica istituzionale; questo era il suo codice identificativo e solo su questo potevano succedere le fratture importanti, non la lenta fuoriuscita di deputati, chi fortemente di destra chi fortemente di sinistra, ma sempre come singolarità. È perciò proprio con il governo Draghi - la “macchina istituzionale” per eccellenza - che nasce la vera crisi dei cinquestelle.

Avere “politicizzato” la cosa - i nove punti di Giuseppe Conte - è un tentativo maldestro di dare forma a un’unica vera questione: o si sta dentro la macchina politica o se ne sta fuori. In un certo senso, siamo ancora alla prima frattura “originaria” di Pizzarotti a Parma. In un certo senso, è lo stesso dilemma che si pose per Rifondazione - in entrambi i momenti topici dei governi Prodi I e II. Il fatto è che il successo dei cinquestelle è venuto proprio quando è riuscito da dentro a fare politica ( con il varo del reddito di cittadinanza), mentre non si registrarono mai risultati politici significativi - come fu il tentativo di porre le 36 ore di lavoro – nell’azione di Rifondazione. E che Rifondazione crollò e sparì nel momento stesso in cui non riuscì più a “temperare” questa doppia azione, tra movimento di piazza e azione di governo.

Vedremo che succederà mercoledì – io credo che i cinquestelle, se Draghi non insiste con le dimissioni irrevocabili e si trovano davanti una scelta “per il governo o contro”, si spaccano. Non so cosa questo possa significare poi per la reale continuità di Draghi o per le sorti dei cinquestelle e del quadro politico. Ma che si spacchino, per me, è scontato. Cosa che invece non succederà con la Lega.