Lunica certezza è che il destino del governo Draghi non è interamente nelle mani di Mario Draghi. Al momento in cui scriviamo, sono state messe nellagenda della Camera «comunicazioni fiduciarie» del presidente del Consiglio, ed è però saltato il tentativo fatto da Pd e 5S di rovesciare il timing, posporre il discorso in Senato a quello di Montecitorio, e questo perché alla Camera la maggioranza è ben più solida che al Senato, ovvero i grillini antigovernativi - e che minacciano di intervenire in Aula facendo sfracelli - sono in gran parte accasati a Palazzo Madama. La dizione «comunicazioni fiduciarie» decisa dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio - sede decisionale nella quale a termine di regolamento è sempre prevista la presenza di un rappresentante del governo - è di tipo tecnico: avendo Mattarella respinto le dimissioni di Draghi, e avendolo rinviato alle Camere, il presidente del Consiglio dovrà intervenire in Aula, ci sarà un dibattito parlamentare dopo il quale le forze politiche presenteranno risoluzioni sulle quali si voterà a chiamata individuale. Un voto di fiducia, appunto. Draghi potrebbe in teoria anche decidere di non ascoltare affatto la discussione e salire al Colle per rimettere definitivamente il mandato, ma sembra improbabile: dopo il rinvio alle Camere operato da Mattarella e la decisione dei gruppi parlamentari della Camera, sarebbe uno sgarbo a entrambe le istituzioni. Per provare a tratteggiare scenari con qualche fondatezza, bisogna però tenere presenti due elementi. Il primo è che, al di là dei numeri, nessun governo è mai caduto perché erano i numeri a mancargli. Piuttosto, nella crisi dei governi quei numeri hanno sempre sancito una irresolvibile frattura politica tra le forze che sostengono un esecutivo. E questo è esattamente il punto di Draghi: un punto politico che il capo del governo ha indicato chiaramente quando ha detto «non esiste un governo senza i Cinque Stelle». E quando ha annunciato le sue dimissioni in consiglio dei Ministri: «La maggioranza non cè piùDal mio discorso di insediamento in Parlamento ho sempre detto che questo esecutivo sarebbe andato avanti soltanto se ci fosse stata la chiara prospettiva di poter realizzare il programma di governo su cui le forze politiche avevano votato la fiducia, la compattezza è stata fondamentale per affrontare le sfide di questi mesi, e queste condizioni oggi non ci sono più». Il contesto, e lorizzonte, sono grillini e Lega che di qui al finale di legislatura nel febbraio 2023 tengono il governo in fibrillazione, se non addirittura sotto scacco. E bisogna aggiungere che anche loperazione in atto di unulteriore scissione in quel che resta delle truppe grilline a guida di Conte potrebbe aiutare, ma solo fino a un certo punto: non sono i voti che servono per far restare Draghi. È la politica. Per non dire che, senza i contiani, ne risulterebbe una compagine di governo perfettamente ridisegnata dalla sua nascita 180 giorni fa, sbilanciata in direzione Salvini-Berlusconi: sono gli elementi che potrebbero e dovrebbero portare - nel caso Draghi rinfoderasse le dimissioni - a un Draghi-bis. A un nuovo governo Draghi, con dentro i governisti ex grillini, che ri-nasce su un programma ri-definito, e con un nuovo patto di maggioranza (e bisogna dire che, al momento, non sembrano esserci né segnali politici né presupposti di quello che alla fine sarebbe un rilancio dellesecutivo). Il secondo aspetto cruciale è che difficile che il presidente della Repubblica, pur prendendo atto di una diversa configurazione della maggioranza di governo, possa sciogliere le Camere in presenza di un governo che ha la maggioranza: se Draghi non si sottoponesse a un nuovo voto, la maggioranza numerica resta lultima registrata in Senato, ed è di ben 172 su 315, nonostante le astensioni grilline. Per questo, se Draghi accettasse di sottoporsi a «comunicazioni» con dibattito e voto fiduciario sarebbe un segnale di un suo ripensamento: perché la fiducia rischia non di perderla, ma di prenderla.E se anche Draghi si dimettesse, salendo al Colle dopo aver semplicemente spiegato in Parlamento i motivi della propria decisione, Mattarella potrebbe decidere di voler verificare lesistenza di quella maggioranza riconfermata così recentemente dal voto in Senato, incaricando unaltra personalità, ed è possibile che si tratti di un profilo istituzionale, o di un profilo tecnico (ve ne sono nel governo Draghi, e a pesare sul piatto di una scelta di questo tipo ci sarebbe la considerazione che si tratta del membro di un governo che il Parlamento non ha sfiduciato). Sarebbe una soluzione-ponte, in vista di elezioni, che solleverebbe Draghi da alcuni mesi di disbrigo degli affari correnti. E che vedrebbe a Palazzo Chigi un governo tecnicamente nella pienezza dei suoi poteri: non solo per impostare la legge di Bilancio, ma anche per disporre i decreti attuativi senza i quali si bloccherebbe il Pnrr. Infine, lultimo scenario: dimissioni di Draghi non irrevocabili, che Mattarella ha già respinto, e scioglimento delle Camere su presa datto di un mutato equilibrio politico. In questo caso, fino alla data del voto che potrebbe realisticamente fissarsi ai primi di ottobre, Draghi resta in carica. Con pieni poteri, e finché non dovrà passare la rituale campanella al suo successore. Il che, con i tempi che richiede il processo di insediamento del Parlamento, nomina dei presidenti, formazione dei gruppi parlamentari e poi infine consultazioni e procedure per la nascita di un nuovo governo, significherebbe Draghi a Palazzo Chigi almeno un paio di mesi e più. Forse fino allapprovazione della legge di Bilancio. Cioè in pratica fino alle soglie del 2023.