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«Secondo me, la buona politica deve trovare l’orgoglio e l’indipendenza di poter fare buona politica. Finché non ci sarà una riforma della giustizia seria e una magistratura indipendente e libera dalle correnti, nessun italiano può dirsi tranquillo». Tra le tante cose dette da Matteo Salvini il 25 aprile - in occasione della presentazione del suo libro Controvento. L’Italia che non si arrende - c’è un passaggio rapido ma chirurgico dedicato alla riforma della giustizia. Il leader del Carroccio, che in autunno rischia di essere condannato per la vicenda Oper Arms, fa «sempre più fatica a dire» di avere «piena fiducia nella magistratura italiana libera e indipendente». Serve dunque un intervento legislativo radicale perché «chiunque, fino a prova contraria, è un presunto innocente» fino alla Cassazione, aggiunge Salvini, derubricando forse a “errore di gioventù” le citofonate in casa di persone indicate dalla folla per chiedere «Scusi, lei spaccia?».
I processi di piazza non piacciono più al leader della Lega, che finalmente fa suoi i principi fondamentali di uno Stato di diritto. E così, a poco più di un mese dalle elezioni europee, il ministro delle Infrastrutture aggiunge una nuova parola d’ordine alla campagna elettorale leghista: riforma della giustizia. La conversione repentina del fu “Capitano” farà piacere a Forza Italia, che alle Europee contenderà proprio al Carroccio il secondo gradino del podio delle forze governative, e che proprio sul sogno berlusconiano della separazione delle carriere dei magistrati ha costruito la propria “ragione sociale” in questa legislatura.
Antonio Tajani può contare così su un nuovo alleato di percorso per spingere il piede sull’acceleratore della riforma costituzionale azzurra. Poco importa sapere se quella salviniana è una svolta sincera o dettata da calcoli del momento, il dato concreto è che Giorgia Meloni da oggi potrebbe ritrovarsi in casa due partner politici decisi a portare a casa una rivoluzione in materia di giustizia che molto poco appassiona i dirigenti e i militanti di Fratelli d’Italia.
La premier, infatti, non ha mai nascosto troppo il suo scarso entusiasmo per una riforma radicale che storicamente non ha mai goduto dei favori di una certa destra italiana, e attualmente rischia di rallentare il percorso dell’unica riforma costituzionale su cui Meloni ha puntato tutte le fiches: il premierato, la «madre dei tutte le riforme», la sola per cui varrà la pena rischiare un referendum popolare. Matteo Salvini lo sa perfettamente e probabilmente proprio per questo ha deciso di fare asse col proprio competitor interno, Forza Italia, su un tema così delicato e spinoso.
Gli sgarbi subiti in questi giorni sull’Autonomia differenziata, del resto, avranno convinto l’ex “capitano” a cambiare strategia e differenziare le proprie “armi” di pressione. Ci sono nuovi equilibri politici da disegnare in maggioranza e il leader traballante della Lega non vuole di certo finire all’angolo dell’irrilevanza. Ed è in questa prospettiva che va letta la giravolta garantista di un ministro delle Infrastrutture confuso, strattonato e diviso tra una propaganda nazionalista - che però non fa più breccia tra gli elettori - e lo spirito originario di Alberto da Giussano, verso cui spinge tutta l’ala nordista del partito. Parlare di riforma della giustizia ha dunque una duplice funzione, serve a mostrare ai nemici interni che non di solo Vannacci vive Salvini e serve a lanciare a Meloni alcuni messaggi precisi e inequivocabili: calpestare il Carroccio significa mettere a repentaglio la messa in sicurezza del premierato.
Così, quello che un tempo era l’uomo forte del centrodestra prova a sopravvivere cambiando pelle e contemporaneamente rispolverando vecchi cavalli di battaglia, come la flat tax, che tanto è sempre piaciuta ai ceti produttivi del Nord. «Sono ambizioso e non mi accontento: porteremo la flat tax fino a 100mila euro e metteremo fine alla legge Fornero entro la legislatura, come promesso», dice il vice premier leghista al Corriere della sera, riprendendo a battere su un tamburo ormai un po’ logoro. Senza rinunciare però ai faraonici sogni su cui già tanti prima di lui hanno dovuto arrendersi: il Ponte sullo Stretto. «Farò di tutto perché sia così, aprire i cantieri significherà, secondo le stime della società Stretto di Messina, creare fino a 100mila posti di lavoro in tutta Italia, e fare lavorare imprese di tutto il Paese».
Ma che siano progetti realizzabili o no conta poco. L’importante è mettere più carne al fuoco possibile da offrire al pubblico delle elezioni. E se andrà male pazienza, ci saranno nuovi sistemi per non perdere centralità almeno in maggioranza. Sostenere la riforma della giustizia potrebbe essere il salvagente più efficace.