In un paradosso tutto italiano, nella stagione in cui Giorgia Meloni si consolida come figura di riferimento nel panorama internazionale – capace di far sedere allo stesso tavolo Washington e i “Volenterosi” europei nella conferenza di Roma per la ricostruzione dell’Ucraina – a farle opposizione non sono le forze che, sulla carta, dovrebbero esserle avversarie. No, a ergersi come unico vero antagonista della premier è il suo alleato di governo: Matteo Salvini.

Il leader leghista, pur imbrigliato nel ruolo di vicepremier, ha stabilmente scelto con chiarezza di rappresentare un’alternativa politica e ideologica dentro il perimetro del centrodestra, coltivando una linea divergente su Europa, e guerra in Ucraina, oltre naturalmente ai fisiologici contenziosi sulle candidature alle Regionali.

Lo spazio per farlo, del resto, glielo hanno offerto su un piatto d’argento tanto le opposizioni – ancora in piena crisi identitaria – quanto Forza Italia, zavorrata da una crisi di leadership resa evidente dalle esternazioni di Pier Silvio Berlusconi. Il numero uno di Mediaset ha pubblicamente indebolito Antonio Tajani, rendendolo di fatto un’anatra zoppa proprio mentre il vicepremier azzurro cercava di smarcarsi dagli alleati sulla cittadinanza, con una proposta – lo Ius culturae ribattezzato “Ius Italiae” – silurata dall’intervento del figlio del fondatore. Un colpo che ha ridimensionato le ambizioni autonomiste di Tajani e ha confermato l’anomalia genetica di un partito appeso ancora all’eredità berlusconiana.

Così, mentre Tajani fatica a farsi sentire e le opposizioni parlamentari si baloccano con la competizione tra Elly Schlein e Giuseppe Conte, è Salvini a incarnare – più per antagonismo politico che per reale efficacia – l’unico controcanto sistematico alla linea della premier. Le distanze si misurano tanto sulle questioni simboliche quanto sui dossier strategici. L’assenza del leader leghista dalla conferenza internazionale sull’Ucraina, a cui ha preferito una missione in Estremo Oriente, è stata letta da più di un addetto ai lavori come un segnale eloquente: zero empatia verso il rilancio atlantista e filo- ucraino di Meloni, culminato con l’annuncio di un fondo europeo da 10 miliardi per Kiev.

Da settimane, Salvini è in silenzioso ma costante disallineamento con la postura internazionale della presidente del Consiglio, alimentando – senza mai esplicitarla – una posizione ben più ambigua nei confronti della Russia. Ma, come si diceva, lo scarto si manifesta anche sul piano interno.

L’ultimo affondo, l’emendamento leghista per il terzo mandato ai governatori – su misura per Zaia – ha messo in imbarazzo l’intera maggioranza, costretta a bocciarlo per evitare un cortocircuito istituzionale. Una mossa che ha avuto il merito, se così si può dire, di inchiodare Meloni a una scelta: dire no alla Lega o aprire una falla sul fronte dell’equilibrio tra i governatori. Ha scelto la prima. Salvini lo sapeva, e non si è scomposto. Anzi, ha segnato un punto politico: la Lega c’è, non è subalterna.

Anche sul fronte europeo la distanza tra i due si è fatta plastica. Fratelli d’Italia, nel Parlamento di Strasburgo, non ha votato la mozione di censura presentata dall’estrema destra contro Ursula von der Leyen, nel nome di una strategia conservatrice ma istituzionale. La Lega, al contrario, ha votato a favore, schierandosi con i sovranisti più radicali, inclusi gli ultras tedeschi di AfD.

Due destre, due visioni, due piani distinti di interlocuzione europea. E una narrazione che si fa inevitabilmente duale, come se talvolta il governo contenesse in sé anche il seme dell’opposizione. Nel frattempo, le opposizioni ufficiali arrancano. Il Pd si consuma nella tensione tra la Schlein radicale e la parte di dirigenza più moderata, mentre Conte prova a cavalcare ogni breccia lasciata scoperta dal Partito democratico, senza però costruire una vera alternativa.

La sinistra si divide sulle armi a Kiev, sull’Europa, sulle alleanze, perfino sul lavoro. Un’alternanza possibile, allo stato attuale, non esiste. E Meloni lo sa. A sinistra, il campo largo resta un disegno incompiuto, lacerato dalla concorrenza interna. A destra, invece, se Meloni continuerà a occupare il centro della scena, la sfida più concreta potrebbe non arrivare da chi la contesta in Parlamento, ma da chi le condivide il potere.