Teresa Bellanova non ha mai abbandonato il campo della vecchia guardia renziana. Riluttante con Carlo Calenda ed entusiasta con Emma Bonino, abbraccia il partito e le sue alleanze anche senza poltrona. «Ma ero Teresa Bellanova prima di conoscere Matteo Renzi», precisa l’ex senatrice di Italia Viva. Che ora è proiettata verso le Europee con gli Stati Uniti d’Europa, ma anche qui senza candidatura, che invece sembrava certa. «Sono convinta del progetto, perché dal punto di vista valoriale è molto nelle mie corde. Ma preferisco lasciare spazio ai giovani e sostenere i ragazzi, continuando nel mio lavoro da militante». Un passo indietro per il futuro, dunque. Ma che dire del passato? Bellanova è ancora una cittadina di Palazzo Madama, a suo modo, ed è lì intorno che ci confessiamo.

Ma in verità con le parole voliamo subito a Ceglie Messapica, quel paesino di 20mila abitanti nella provincia di Brindisi dove si trovano i passi della sindacalista-bambina. Non che Bellanova avesse tutta questa fretta di crescere o di lasciare la scuola. Ma quel paesino che oggi conosce la ribalta della cultura gastronomica, all’epoca era poco più che una zona di agricoltura estensiva, senza irrigazione, di collina. Nei campi ci lavorano tutti, compreso suo padre, colono, che si spacca la schiena ma poi deve darne un bel pezzo al proprietario terriero.

Così papà Bellanova decide di comprarsi il proprio riscatto e fa le cambiali. Ma la terra va male, e allora se ne va in Svizzera, mentre sua figlia Teresa deve mettersi a capo della famiglia a 10 anni. «Era nato da poco mio fratello, e mia mamma aveva serissimi problemi di salute. Ma le cambiali bisognava pagarle». Il che spiega l’incontro con il caporalato. La prima volta con l’impiego nella produzione di uva, nel sud-est di Bari. Per arrivarci la strada è lunga, almeno cento chilometri. Le ragazze lavorano nel magazzino al piano di sopra, sotto si dorme nella brandina col cucinotto. Dall’alba alla sera, ogni giorno. C’è chi comanda e chi esegue. «La tua vita e il diritto al cibo era nelle mani di uno che veniva e selezionava. Gli uomini andavano in piazza e il caporale diceva: tu sì tu no». Così le donne, coi mariti emigrati, si organizzano e mettono insieme una rete. «Non è facile chiedere a una persona di reagire quando dal suo lavoro dipende il sostentamento della famiglia: ribellarsi significava rimanere senza le 2mila lire».

Però Teresa Bellanova è uno spirito libero, quando gli altri tacciono alle assemblee, lei invece parla, parla, e briga. Finché la dirigente della Federbraccianti di allora, Donatella Turtura, va in Puglia e l’ascolta, la nota, e la chiama a lavorare. Arriva l’incarico come capolega della Camera del Lavoro di Ceglie Messapica. A 18 anni va nella Cgil. La prima tessera che porta in tasca è del Pci. L’iniziativa più spericolata della sua vita è organizzare posti di blocco. La prima conquista è mettere insieme i pulmini per andare nei campi per conto proprio, boicottando quelli dove gli esseri umani viaggiano ammassati: «L’autotrasporto gestito, che fa saltare i nervi ai caporali». L’esperienza più spaventosa? Le minacce con le armi in una domenica mattina a Villa Castelli, nella Camera del Lavoro. Quegli uomini le “vogliono parlare” e poi arriva la polizia. Bellanova cambia strada, fino a Lecce, prima lavorando per i braccianti, poi per il tessile.

E quegli anni, per l’ex ministra, spiegano bene che vuol dire “pratica riformista”: «Un passo dopo l’altro per migliorare la condizione di vita delle persone, non per dare sfogo al nostro ego». Così i sindacalisti si inventano i contratti di gradualità, per mettere un punto all’abitudine barbara di pagare per la metà delle ore lavorate. «Quando hai vissuto sulla tua pelle che cosa significa ribellarsi, allora capisci». Il sindacato deve averci il contatto con chi vuole tutelare, ragiona Bellova. Che quella svolta contrattuale non la considera un successo personale, ma una scelta che rifarebbe. E lo stesso vale soprattutto per il Jobs act. La riforma del lavoro che ancora una volta vale a Bellanova un bel sospiro per scacciare via le critiche e le minacce che l’hanno portata sotto scorta. «Lo difendo. E considero un gesto irresponsabile verso i lavoratori la scelta di chi vorrebbe fare il referendum». Perché Bellanova potrebbe stare anche due ore a spiegare le ragioni per cui difendere il Jobs act, comprese quelle che l’hanno portata a cambiare radicalmente idea nella sua carriera politica. Ma quello che non sopporta sono i passi indietro di chi ci ha lavorato e non ha avuto niente da ridire quando poteva. Invece di fare «tappezzeria».

La Bellanova del fare intanto è approdata in Parlamento, dove resta per 17 anni. Camera e Senato, con il Pd e poi con Renzi. E chi è arrivato fin qui nella lettura non faticherà a immaginare la risposta alla domanda: ma che gliene poteva fregare, a Teresa Bellanova, delle critiche al vestito blu con le balze quando finalmente ha giurato come ministro alle politiche agricole nel Conte bis? Ma cosa gliene può fregare in generale, a Teresa Bellanova? Assolutamente niente: «Mi vivo bene», ride lei. Che la vita l’ha presa a muso duro, inseguendo una «battaglia giusta». «Mi sono sentita una riformista, sempre, nella mia pratica sindacale e nella mia pratica politica, io sono stata una riformista sempre», ripete ancora una volta.

Nella sua esperienza si è calata dentro il lavoro e si è fatta portavoce delle donne. Ma soprattutto di quella bambina cresciuta in Puglia che si infila nel primo negozio prima di salire al Colle. L’abito la convince: è blu come il suo umore. «Dopo dalle foto ho visto che pendeva un po’ di qua e un po’ di là, però mi piaceva il colore». Che rispecchia il sentimento di chi sta per compiere un passo importante e gli sembra impossibile. «Le critiche? Mi hanno fatto riflettere su quanto è misero a volte l’animo umano». Quelle per il vestito, dicevamo, e poi per il titolo di studio misurato con il monocolo. «Non sono mai stata orgogliosa di aver lasciato gli studi e non lo sono neanche adesso. Se affronto un argomento che conosco, mi sento un leone. Ma è faticoso».

Non è felice neanche del messaggio passato al momento delle dimissioni, in silenzio di fianco a Renzi. Ma allora le sembrò un fatto normale. E anche se Bellanova è una tutta politica, non è solo politica. Si vede che nelle cose ci mette dell’altro: resta una ragazza di 65 anni. Per lei suo marito Abdellah El Motassime ha mollato tutto dopo quel fortunato incontro di lavoro in Marocco: lei in missione per la Cgil, lui interprete. Uno con una carriera brillante davanti che invece decide di trasferirsi in Italia e ricomincia da capo con tutte le difficoltà del caso. Eppure Abdellah non glielo ha mai fatto pesare, neanche una volta. E mentre noi ci stupiamo, per lui è naturale. Insieme hanno un figlio e una vita felice da 34 anni. «Sono una donna fortunata», dice Bellanova usando la parola come sinonimo di appassionata.

È la Teresa Bellanova che ammette di odiare gli indifferenti, che ha «un grande rispetto per chi ha il dono della fede», come tutti quelli che scontano la condanna all’incredulità. Ma in una cosa ci crede: «Amo questo modo di vivere, anche se non ti dà neanche il tempo di prepararti una cena». Si tratta del «rapporto con gli altri».